La denuncia dello scandalo della guerra, l’ostinazione a non far perdere l’orizzonte la parola pace: la Chiesa cattolica nei giorni di Pasqua resta ancora più isolata. Intorno a lei il silenzio perfetto dei leader politici grandi e piccoli: nessuno di loro tenta una strada alternativa a quella della preparazione militare in attesa di un potenziale – e temibile – salto di qualità di quella che Papa Francesco ha chiamato “terza guerra mondiale a pezzi“. La venuta del conflitto viene descritta come inevitabile e la priorità è diventata armarsi, come ha spiegato in modo esplicito la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “La pace non si costruisce con i buoni sentimenti e con le belle parole – ha detto durante un saluto al contingente italiano in Libano – La pace è soprattutto deterrenza, impegno e sacrificio”. Sorprende meno che “prepararsi alla guerra” sia l’assillo di Roberto Cingolani, ex ministro che ora guida la più grande industria bellica italiana. Una linea ribadita ieri dal cancelliere tedesco Olaf Scholz: “Pace senza libertà significa oppressione. Non c’è pace senza giustizia. Ecco perché sosteniamo l’Ucraina nella sua lotta per una pace giusta, finché sarà necessario“. Una formula che ricorda quasi il whatever it takes militare con la differenza non banale che la partita non è su questioni economico-finanziarie ma si fa sui campi di battaglia. Fissato il punto che Vladimir Putin è il responsabile dello scoppio di questa nuova guerra alle porte dell’Europa – a 80 anni dell’ultimo conflitto – l’unica parola d’ordine è combattere. E’ in questo scenario che nei giorni in cui nelle parrocchie si rievocheranno i simboli dell’ulivo e delle colombe l’unico a non rassegnarsi al piano inclinato è proprio il mondo della Chiesa cattolica, sostanzialmente inascoltata.

Il messaggio più esplicito arriva da Assisi, capitale italiana del pacifismo. “È ora che ognuno da una parte o dall’altra, in ogni conflitto che ancora insanguina il mondo, compia il gesto più onorevole, coraggioso e audace: fermarsi. Perché siamo, grazie alle piaghe del Risorto, un’unica famiglia, fratelli e sorelle” ha scandito in un videomessaggio il Custode del Sacro Convento di San Francesco, fra Marco Moroni. Durante le meditazioni del Venerdì Santo anche Papa Bergoglio aveva espresso la sua angoscia per le vittime della “follia della guerra“. Pochi giorni prima in una nota congiunta tutte le principali associazioni cattoliche italiane avevano invocato: “Si alzino le bandiere bianche!“. Non un gesto di resa, ma per segnalare “la priorità” della pace. Acli, Agesci, Azione Cattolica, Comunità Papa Giovanni XXIII, Movimento dei Focolari Italia e Pax Christi avevano sottolineato tra le altre cose di “non potere accettare che solo la guerra sia la soluzione dei conflitti. Ripudiarla significa arrestarne la progressione. A cominciare dall’aumento sconsiderato della produzione di armi, a discapito di vere politiche di sviluppo. Osare la pace significa scegliere politiche di disarmo, nucleare e non. Osare la pace significa difendere la legge 185/90 che oggi rischia di essere svuotata”. Il riferimento è alla normativa che regola il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento.

Ieri il tema è riemerso nel messaggio di auguri della Cei firmato dal presidente Matteo Zuppi e dal segretario generale Giuseppe Baturi. I due prelati parlano di “tenebre profondissime” che “avvolgono migliaia di persone in tanti luoghi nel mondo, in particolare in Ucraina e in Terra Santa“. Zuppi e Baturi sottolineano che “non possiamo abituarci alla guerra, ai combattimenti che non risparmiano deboli e innocenti, soprattutto i bambini: dovremmo sempre guardare attraverso le loro lacrime, attraverso il pianto dei più piccoli. È da lì che capiamo tutto l’orrore e la violenza della guerra, dell’ingiustizia e quanto questo sia inaccettabile”. Il messaggio dei vescovi italiani insiste: “Vorremmo che l’annuncio della pace corresse di terra in terra, di popolo in popolo. Vorremmo che arrivasse presto la fine dei conflitti e che si aprisse il tempo della fraternità”. Il concetto è quello di “lavorare ogni giorno per costruire la pace”. Un passaggio ripreso, ancora ieri, dal vescovo di Acireale Antonino Raspanti che è anche presidente della conferenza episcopale siciliana. Il presule parla del “mondo dilaniato dalla guerra e avvolto dalla minaccia di un’escalation dei conflitti, le recenti riflessioni sulla pace e sull’oscurità offrono un’esplorazione profonda della condizione umana e spirituale”. Dall’altra parte, sottolinea monsignor Raspanti, “l’interesse di noi cristiani deve vertere alla costruzione di una pace autentica e duratura, seguendo l’esempio di Gesù che ha vinto il male nell’umiltà e nel sacrificio della sua vita”.

Sulla parola “deterrenza” si è soffermato invece il teologo Ettore Malnati, vicario alla diocesi di Trieste, già docente di diritti umani e dottrina sociale all’università della città giuliana e alla facoltà teologica di Lugano, studioso dei papati di Giovanni XXIII e Paolo VI e in generale del Concilio Vaticano II. “Deterrenza o dialogo per educare alla pace? – si interroga Malnati su un tema che sembra affrontare il concetto espresso proprio nei giorni scorsi da Meloni – Pensare alla deterrenza armata, cioè l’uno e l’altro armati, come logica per la pace è già di per sé un attentato alla pace stessa: non si educa alla pace diffondendo come etica una mentalità belligerante. Anche se fosse legittimo il fine, questo non può rendere etico e quindi giustificati i mezzi. Già Machiavelli aveva tentato di far passare il contrario di ciò”. Per promuovere la pace, continua monsignor Malnati, c’è bisogno di “scelte sociali e culturali che presentino strategie di concreti negoziati diplomatici”, per prevenire “scontri ideologici e mire espansionistiche di questo o quello Stato di diritto e vigili affinché non si annidino presenze terroristiche”. In questo quadro, “le Istituzioni della Comunità internazionale devono prevenire ed affrontare le diverse conflittualità ideologiche ed espansionistiche, per far rispettare le varie sovranità con strumenti giuridici e sanzioni che siano atti ad evitare l’uso delle armi e per dare effetto di concretezza ad arbitrati diplomatici”, abbandonando “la logica della conflittualità armata come soluzione ai problemi ed educare al dialogo istituzionale per la soluzione di problematiche tra Popoli e Stati”. Il teologo triestino ricorda Gandhi, il campione della non violenza, e sottolinea che la “conflittualità armata anche quando si conclude, lascia un grande strascico di amarezze e spesso una voglia di vendicarsi a vari livelli, e richiede generazioni per una sincera convivenza”. Invece, “la pace è una conquista quotidiana” che “si costruisce guardandosi negli occhi e trovando ciò che vi è di giusto e di vero nell’altro, anche se diverso dal mio criterio di giustizia e di verità, non in una logica relativista ma, alla luce di un arbitrato super partes, in una valutazione del giusto possibile e del vero sufficientemente luminoso”.

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