I test psicoattitudinali per gli aspiranti magistrati? Non hanno “alcun vero ancoraggio scientifico“. E gli “esperti” che dovranno valutarli, in assenza di criteri adeguati, finiranno per sostituirli “con un disciplinato affidamento, se non con una subordinazione, all’ordinamento politico del momento”. Un allarme che sembra lanciato oggi e invece risale a vent’anni fa esatti, al lontano 2004, quando a proporre i test appena introdotti dal governo Meloni – e già immaginati da Licio Gelli nel suo Piano di rinascita democratica – era il leghista Roberto Castelli, Guardasigilli di Silvio Berlusconi. Contro quel progetto si erano schierati 170 psichiatri e psicologi italiani, in una lettera aperta ripubblicata in questi giorni dal sito di Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica (storica corrente delle toghe progressiste). Nel testo, i professionisti esprimevano “la più decisa contrarietà, disapprovazione e preoccupazione” per il progetto Castelli, sulla base di “una critica soprattutto tecnica“: il ddl, scrivevano, “sembra proporre una forma di valutazione predittiva psicologico-psichiatrica del futuro magistrato, nella presupposizione di una capacità “scientifica” e tecnica di discriminare, attraverso test e colloqui, la specifica “idoneità psicoattitudinale” degli aspiranti”. Cioè proprio quello che ora vuole ottenere il decreto varato dal Consiglio dei ministri. E che però, secondo gli addetti ai lavori, è semplicemente irrealizzabile: “Nessun tecnico, anche soltanto minimamente competente in materia, saprebbe in coscienza avallare una simile supposizione o presunzione”, si legge nella lettera. E questo, spiegano i dottori, “non per un’attuale insufficienza dei nostri strumenti di indagine, ma in ragione di più cogenti criteri metodologici, che impediscono la costruzione di griglie atte a testare funzioni complesse” come quelle esercitate da giudici e pm, “come se si trattasse di mere capacità oggettivamente standardizzabili”.

Il rischio di prevedere valutazioni psicologiche impossibili, quindi, è di trasformarle in scappatoie per introdurre meccanismi nascosti di selezione politica. “Gli esperti esaminatori, non avendo alcun vero ancoraggio scientifico per validare i propri giudizi, si troverebbero, nella migliore delle ipotesi, in balìa di suggestioni intuitive ed empatiche; o, più facilmente, sarebbero indotti a surrogare la mancanza di appropriati criteri ordinativi nella propria “disciplina” di competenza con un “disciplinato” affidamento, se non con una subordinazione, all’ordinamento politico del momento”, si legge nella lettera. Insomma, dove non arriva la scienza può arrivare la convenienza a compiacere la maggioranza di turno. “L’operato di simili esperti”, avvertono psichiatri e psicologi, “correrebbe così il rischio di adeguare le proprie rispostediagnosticheall’aspettativa di quella domandapolitica” che li ha cooptati come suoi funzionari. Il risultato di tutto ciò sarebbe, con tutta evidenza, negativo per la psichiatria, per la psicologia, e altrettanto inopportuno e sfavorevole per la magistratura, per la giustizia e per la cultura del nostro Paese”, è la conclusione. L’inadeguatezza dei test, peraltro, è resa evidente anche dall’esperienza della Francia, spesso citata (a sproposito) dai loro sostenitori. Nel 2008 il governo di Parigi aveva previsto un meccanismo di selezione delle aspiranti toghe basato (anche) su test e colloqui psico-attitudinali, dello stesso tipo di quello appena introdotto in Italia: ma l’esperimento è fallito, spingendo il ministero della Giustizia a fare dietrofront dopo meno di otto anni. Al momento rimane prevista solo la presenza di uno psicologo nella commissione di concorso, che però si limita a valutare le prove orali insieme agli altri componenti (sei magistrati, un professore universitario, un avvocato e un esperto di risorse umane).

La prova psico-attitudinale era stata introdotta dal centrodestra, sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy. La mossa seguiva l’onda di indignazione pubblica suscitata dal “caso Outreau“, un paesino del Pas-de-Calais in cui 12 bambini erano stati vittime per anni di abusi sessuali: nel 2004 per la vicenda furono condannati 13 presunti pedofili, che però, l’anno successivo, si rivelarono innocenti e accusati da uno dei veri colpevoli. Un errore giudiziario clamoroso, attribuito dai media alla scarsa solidità psicologica dei magistrati che si erano occupati del caso. Così, il 31 dicembre 2008, fu pubblicato un decreto del governo che riformava il concorso: accanto alle classiche prove scritte e orali, si prevedeva che ogni candidato fosse valutato da uno psicologo tramite un parere scritto, messo a disposizione della commissione esaminatrice per il giudizio finale. Il parere si basava su “test di personalità e attitudinali della durata massima di tre ore” e su “un colloquio della durata massima di trenta minuti”, quest’ultimo da tenersi “alla presenza di un magistrato”. Le prove somministrate erano due: un “inventario della personalità” composto da 240 domande e il cosiddetto “test del domino“, un quiz psicotecnico per misurare l’intelligenza generale. A differenza di quanto succederà in Italia, però, i test erano affrontati prima delle altre prove e non dopo, svolgendo quindi una funzione di scrematura della massa dei candidati: il decreto approvato dal Consiglio dei ministri, invece, prevede che a sottoporsi alla valutazione psicologica siano i candidati già risultati idonei alla prova scritta.

Contro i test i sindacati della magistratura francese avevano fatto ricorso al Consiglio di Stato, chiedendo di annullare il decreto del governo per violazione del principio costituzionale di indipendenza dell’ordine giudiziario. I giudici amministrativi però l’avevano ritenuto legittimo, scrivendo che il testo si limitava “a fornire un elemento di valutazione a disposizione della commissione giudicatrice”, la quale manteneva “la sua capacità sovrana di valutare i meriti dei candidati”. In sostanza, quindi, il ruolo dello psicologo doveva essere solo quello “di aiutare la giuria a valutare alcune competenze dei candidati in relazione alla loro personalità e la loro capacità di evoluzione sul piano professionale”. Il problema, però, è che alla prova dei fatti quell’obiettivo non è mai stato raggiunto. Alla fine del 2016 un gruppo di lavoro nominato dalla Scuola nazionale della magistratura (l’ente responsabile dei concorsi) stabilì la sostanziale inutilità dei test per il reclutamento degli aspiranti giudici, denunciando la loro “pericolosa parvenza di scientificità”. La procedura venne eliminata a maggio 2017, negli ultimi giorni della presidenza socialista di François Hollande. Secondo le sigle delle toghe d’Oltralpe, il sistema di valutazione era stato attuato in modo “subdolo e discutibile, relegando in secondo piano la formazione dei magistrati”, tanto da dare origine a numerose denunce di candidati per “commenti inappropriati, diagnosi inserite nelle relazioni e domande percepite come intime o inquietanti relative all’orientamento sessuale, alle origini etniche o alla disabilità”.

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