È stata uno dei peggiori disastri ambientali mai avvenuti nella Terra dei fuochi quello provocato dai fratelli Pellini. A cui ora, su decisione della Corte di Cassazione (e a causa di vizio di tardività del decreto di confisca di secondo grado), viene restituito un patrimonio di circa 220 milioni euro. Molti lo definiscono in queste ore “uno scandalo”. Perché gli stabilimenti dei tre fratelli Cuono, Giovanni e Salvatore Pellini, quest’ultimo maresciallo dei carabinieri sospeso dal servizio dopo il suo arresto, nel 2006, sono serviti per stoccare un milione di tonnellate di rifiuti, anche pericolosi, quelli solidi seppelliti poi nei terreni agricoli e nelle cave e, quelli liquidi nei Regi Lagni, un reticolo di canali che si estende tra le province di Napoli e Caserta, frutto di una bonifica risalente al Seicento. Parte di quei rifiuti è stata finanche ceduta come fertilizzante agricolo. I tre fratelli sono stati condannati in via definitiva a sette anni, per traffico illecito di rifiuti e disastro ambientale. Era maggio 2017, ma in carcere sono rimasti solo qualche mese. Dietro, però, hanno lasciato veleno e morti. Moltissimi bambini, che non saranno mai adulti e per cui le madri non sono riuscite a ottenere neppure giustizia, nonostante anni incessanti di lotta.

Il processo che svelò il disastro – Il processo ‘Carosello’ iniziò nel 2006 e, nel 2012, il pubblico ministero della Procura di Napoli, Maria Cristina Ribera, chiese per i 26 imputati tra imprenditori, funzionari e tre carabinieri coinvolti, un totale di 232 anni di carcere, oltre alla confisca di impianti e mezzi. Diciotto anni per ognuno dei fratelli Pellini, responsabili dell’organizzazione, accusati anche di aver favorito il clan Belforte. Gli unici, alla fine, a essere stati condannati. Nel corso del processo, infatti, l’accusa dimostrò come Cuono e Giovanni Pellini, fin dagli anni Novanta, avessero sotterrato nelle campagne tra le province di Caserta e Napoli un milione di tonnellate di scarti industriali provenienti da Veneto e Toscana. Il tutto, con l’appoggio dei clan Di Fiore di Acerra e Belforte di Marcianise. La posizione di Salvatore Bellini e quella di altri funzionari pubblici aveva permesso per anni di insabbiare tutto, anche le denunce di contadini ed allevatori che, stanchi ed esasperati per la presenza di livelli di diossina su ortaggi e nei capi di bestiame molto superiori alle soglie consentite, avevano iniziato a rivolgersi ai boss. Nel frattempo, stava avvenendo una strage. Nel processo si costituì parte civile anche Alessandro Cannavacciuolo, uno degli ambientalisti che aveva denunciato e che fu minacciato. Oggi portavoce dei Volontari antiroghi Acerra, uno dei comitati della Terra dei Fuochi, ha manifestato più volte, anche negli ultimi mesi per scongiurare l’accaduto. E ora chiede di far luce su come si sia arrivati a questo punto.

Il patrimonio confiscato (e ora restituito) – La sentenza di primo grado è arrivata nel 2013, sul filo della prescrizione: per traffico di rifiuti Giovanni e Cuono sono stati condannati a sei anni di reclusione e Salvatore a quattro anni e mezzo. Altre cinque le condanne, anche per gli altri due carabinieri coinvolti. Prescrizioni e assoluzioni per tutti gli altri imputati. Nel 2015, i tre fratelli sono stati condannati in Appello a sette anni di reclusione per disastro ambientale, sentenza poi confermata a maggio 2017. Pochi mesi prima, a febbraio, è stato eseguito nei confronti dei tre imprenditori il sequestro preventivo dalla Guardia di Finanza di Napoli. Un vero impero societario e patrimoniale che, secondo la procura, era stato creato grazie all’attività illecita di smaltimento di rifiuti speciali gestiti negli impianti di loro proprietà dal 1997 al 2005. Perché i tre avevano reinvestito quanto guadagnato con lo smaltimento dei rifiuti in altre attività economiche. Basti pensare che nel 2016, l’anno prima della sentenza della Cassazione, una ditta riconducibile ai Pellini, la Atr, si era aggiudicata anche la gara per la rimozione dei rifiuti contenenti amianto dalle strade di Napoli. Un affidamento finito nel mirino dell’Anac, e successivamente, revocato in autotutela dal Comune. Tra i beni sequestrati (e poi confiscati) due società operanti nel recupero e nel riciclaggio dei rifiuti urbani ed industriali, tre nel settore immobiliare, una di noleggio dei mezzi di trasporto aereo proprietaria anche di tre elicotteri, diverse quote di partecipazione a ditte individuali nel settore della ristorazione e distribuzione di carburanti, 68 terreni, 50 autoveicoli e automezzi industriali, 49 rapporti bancari dislocati anche in altre province italiane, 250 tra fabbricati, palazzi, appartamenti, ville, in località turistiche, ma anche a Roma e ad Acerra.

Uno scandalo su cui si chiede di fare luce – La sentenza del 2017 e la confisca del 2019 sono state accolte come una svolta, soprattutto per le mamme rimaste “orfane dei figli”. “Nulla e nessuno potrà restituire il dolore, la sofferenza e il sacrificio di chi, in questa pagina buia della nostra terra ci ha rimesso la vita – raccontava Cannavacciuolo – ma oggi lo Stato, attraverso questa ordinanza di confisca, dà un segnale di presenza e di contrasto a questa organizzazione”. A giugno 2023, la confisca del patrimonio è stata confermata in secondo grado e, a luglio, la Corte d’Appello di Napoli ha respinto l’istanza presentata dai difensori dei Pellini, che chiedevano di dichiarare l’inefficacia di quel provvedimento. Al centro della richiesta la violazione del termine perentorio di 18 mesi richiesti dalla legge per emettere un provvedimento di secondo grado. La stessa che ha portato alla decisione della Corte di Cassazione di restituire quel patrimonio a chi ha avvelenato un territorio vastissimo.

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