“Com’è possibile che due ragazzi in bicicletta siano investiti e uccisi e non venga nemmeno fatto un processo? Si sarebbe dovuto tenere anche se l’auto fosse andata a cinquanta all’ora. Per sette anni e mezzo non ci hanno ascoltato. Ma adesso abbiamo la prova e una sentenza: viaggiava a novanta chilometri all’ora”. Canzio Ravasi, milanese residente a Cermes, in Alto Adige, è un padre che non sa darsi pace. Non solo per la morte della figlia Stefanie, travolta da una Volkswagen a 21 anni nel 2016, ma per l’impossibilità di avere giustizia. Ha impugnato per due volte le archiviazioni, ha denunciato senza esito per presunti depistaggi i vigili urbani, nel 2020 si è perfino incatenato davanti al Tribunale di Milano: “Sono un padre disperato”, aveva detto. Qualche settimana fa ha scritto a ilfattoquotidiano.it. Pagina dopo pagina, verbale dopo verbale, ha ripercorso le stazioni della sua via crucis umana e giudiziaria, ripetendo una domanda: con due ragazzi morti in quel modo, perché non si è tenuto nemmeno un giudizio per accertare le responsabilità? I dubbi su un’inchiesta datata potevano sembrare i fantasmi di un genitore che non sa rassegnarsi al lutto. Ma quest’anno, finalmente, una sentenza gli ha dato ragione: le motivazioni della sentenza civile per danni hanno confermato ciò che Ravasi ha sempre sostenuto, cioè che l’auto responsabile della morte di sua figlia viaggiasse ben oltre il limite di velocità di cinquanta chilometri orari previsto nei centri urbani. L’inchiesta penale, invece – senza una perizia d’ufficio – si era conclusa con un perentorio “la notizia di reato deve essere valutata come infondata”, cioè la magistratura aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione.

Stefanie Ravasi

L’incidente – Il 1° ottobre 2016, poco dopo mezzanotte, tre ragazzi in sella a due biciclette si immettono su via Nazionale a Sinigo di Merano (Bolzano). David Pirhofer, 31 anni, e Stefanie Ravasi sono insieme su una city bike: lei è seduta sul portapacchi. Il fidanzato della ragazza, invece, è su una mountain bike. Nello stesso momento, sul rettilineo arriva una Volkswagen Lupo guidata da un diciottenne, patentato da appena tre settimane. L’amica seduta al suo fianco si accorge delle bici e urla: “Ciclisti!”. L’impatto è violentissimo, Stefanie e David vengono scaraventati in aria per decine di metri. Il guidatore non li ha visti, infatti sull’asfalto non ci sono segni di frenata. Il fidanzato, sotto choc, abbandona la bici e fugge. Inutili i soccorsi. La giovane spira mentre cercano di rianimarla. I vigili urbani effettuano i rilievi.

La richiesta di archiviazione – L’automobilista viene indagato, ma nel marzo 2017 il pm di Bolzano Giancarlo Bramante chiede l’archiviazione. Nel farlo elenca circostanze che avvalorano la tesi della totale colpa delle vittime: la bici, scrive, non aveva luce posteriore e catarifrangente, i due ragazzi avevano assunto alcol e droghe, il ciclista teneva un “comportamento non consono” ed era “lontano dal margine destro della carreggiata”. Inoltre, in base a quanto riferito dalla passeggera dell’auto, “l’impatto è avvenuto improvvisamente” e il guidatore “non aveva la possibilità di frenare, né di spostarsi”. Conclusione: “Non sono emersi elementi sufficienti per stabilire se l’indagato abbia tenuto un comportamento contrario al codice della strada e se la sua condotta sia caratterizzata al di là di ogni ragionevole dubbio da colpa specifica”.

Le perizie I familiari delle vittime, parti offese, si oppongono alla richiesta di archiviazione: sottolineano che la bici viaggiava sulla destra con il fanale anteriore acceso, che alcool e droga non avevano avuto “nessuna efficacia causale dell’incidente”, e che al guidatore neopatentato non era stato fatto un accertamento tossicologico, ma solo il test dell’etilometro, mentre i feretri delle vittime erano stati aperti una settimana dopo il decesso per i prelievi di sangue e urine. Soprattutto, il consulente di parte Igor Gonella fissa in 83 chilometri la velocità dell’auto, ben superiore al limite di legge. Il 16 novembre 2017, però, il gip Emilio Schonsberg archivia parlando di un “comportamento gravemente colposo dei due ragazzi”, investiti per una “tragica fatalità” e per la “totale mancanza di avvistabilità”. Decisiva la tesi del consulente della difesa, secondo cui “la velocità dell’auto era impossibile da ricostruire”. Nel 2019 la famiglia chiede di riaprire le indagini in seguito a una nuova consulenza, firmata dal perito Mattia Strangi, che stima la velocità in 96 chilometri all’ora, sulla base di una registrazione video dell’auto effettuata 250 metri prima dell’impatto. Il gip però rifiuta, sostenendo che la perizia non costituisca una nuova prova.

I due ragazzi in bici prima dell’incidente

La denuncia per depistaggio – Sempre nel 2019, dopo aver raccolto la confidenza di un loro collega, Ravasi denuncia per depistaggio cinque vigili urbani di Merano, accusandoli di “aver omesso e occultato informazioni e controlli in modo da non fare emergere la verità e la totale responsabilità dell’investitore”. Nel farlo elenca una serie di anomalie come i mancati test tossicologici, il mancato sequestro del cellulare, la mancata infrazione di eccesso di velocità, nonostante, nella relazione sull’incidente, quella contestazione venisse annunciata. L’auto – fonte di prova – viene sequestrata ma restituita al proprietario il giorno successivo, “su indicazione del procuratore di Bolzano”. Al conducente è stata restituita la patente dopo pochi giorni. Nonostante il video a disposizione, prosegue l’esposto, non è stata segnalata “l’elevatissima velocità” dell’auto. La scoperta di una bustina di ecstasy in tasca a David, secondo il padre di Stefanie, avrebbe inoltre instillato nei vigili “il pregiudizio di avere di fronte due tossicodipendenti imbottiti di stupefacenti”. L’indagine però non decolla: per il pm Andrea Sacchetti non vi sono prove che eventuali omissioni fossero frutto di dolo, al massimo di “negligenza”. Il gip ritiene le accuse non provate e archivia.

La svolta – La svolta, ormai tardiva, arriva nel 2024 grazie all’ingegner Luigi Cipriani, consulente d’ufficio del giudice civile Simon Tschager. “A fronte del limite di cinquanta chilometri all’ora, gli elementi disponibili consentono di valutare per l’autovettura una velocità di arrivo all’urto con il velocipede nell’ordine dei novanta chilometri all’ora, sensibilmente eccedente il limite massimo, all’interno della corsia di marcia”, scrive nella sua perizia, disposta nell’ambito della causa intentata dalla famiglia di Stefanie per il risarcimento del danno. L’automobilista “avrebbe potuto avvedersi del velocipede già a sessanta metri di distanza. Il suo comportamento risulta quantomeno in contrasto con gli articoli 140, 141 e 142 del Codice della strada per la velocità mantenuta”. Per il giudice è una “argomentazione ampiamente motivata e priva di vizi logici o di altro genere”. Se l’auto avesse rispettato i limiti “e il conducente si fosse avveduto della presenza del ciclista quando effettivamente era possibile, si sarebbe potuto arrestare in uno spazio di 28-30 metri a fronte dei sessanta disponibili, evitando l’impatto con guida accorta”, scrive il perito. Anche a settanta chilometri all’ora, aggiunge, l’incidente non sarebbe stato mortale.

L’auto (freccia) ripresa dalla telecamera mentre viaggia a circa 93 km/h 250 metri prima dell’impatto

“La colpa c’era” – Il giudice quindi stabilisce che un concorso di colpa dell’automobilista ci fu, anche se lo quantifica in misura di soltanto un terzo del totale (i restanti due terzi sono attribuiti ai due ragazzi uccisi, che erano sulla stessa bici). Nella sentenza le archiviazioni penali vengono spiegate sulla base del fatto che in quella sede serve dimostrare la colpevolezza dell’indagato “al di là di ogni ragionevole dubbio”, mentre nel processo civile lo standard probatorio è inferiore. Ma Canzio Ravasi, il padre di Stefanie, è convinto: “Le prove per il processo c’erano, sono state nascoste, ma questa verità non può bastarci, anche perché il tempo non lenisce il dolore, anzi lo rende più insopportabile”, dice. Mentre il suo avvocato Paolo Chiariello ricorda che al tempo delle indagini, prima della riforma Cartabia, “il codice non prevedeva la prognosi del gip sull’esito di un processo penale, bensì la ricerca della prova nel dibattimento, ove necessaria. In trent’anni di professione un caso così, a fronte dell’evidenza della prova sulla velocità, in una strada illuminata, non mi è mai accaduto…”.

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