Venivano reclutati sul piazzale della stazione, trasportati nelle vigne delle Langhe per vendemmiare. Senza un contratto. Meno di sei euro all’ora, in nero, fino a 12 ore al giorno. Sette su sette. E alla sera si accampavano in baracche di fortuna lungo il fiume Tanaro. Così lavorava una quarantina di persone di origine straniera, vittime di caporalato nelle province piemontesi di Cuneo, Asti e Alessandria. Su queste colline, patrimonio dell’Unesco, dove si producono Barolo e Moscato è emerso “un quadro diffuso di sfruttamento lavorativo” portato alla luce dai carabinieri del nucleo ispettorato del lavoro di Cuneo e dai Comandi Provinciali di Cuneo e Bolzano.

Questa mattina gli uomini dell’Arma hanno eseguito un’ordinanza di misura cautelare interdittiva emessa dal Gip del Tribunale di Asti. Nove persone hanno ricevuto un divieto temporaneo di esercitare l’attività professionale o imprenditoriale e gli undici veicoli utilizzati per il trasporto dei lavoratori sono stati sequestrati. L’accusa? Caporalato e impiego di lavoratori non in regola con il soggiorno in Italia. L’indagine è partita nell’aprile del 2023 grazie ad alcune ispezioni ordinarie degli uomini del comandante Dario Scarcia insieme agli ispettori del lavoro e ai mediatori culturali dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Un lavoro meticoloso che ha registrato numerose irregolarità tra i filari e nei luoghi di raccolta dei lavoratori nel periodo della vendemmia.

La scena è sempre la stessa. Fin dalle prime ore del mattino, di fronte alla stazione di Alba, il più importante centro della zona, si radunano gli aspiranti vendemmiatori. La maggior parte di loro è di origine africana. Aspettano l’arrivo dei caporali delle cosiddette “cooperative senza terra” che li caricano su furgoncini o su macchine utilitarie per portarli direttamente nelle vigne senza dare troppo nell’occhio. La paga? Sei euro all’ora. In nero, senza un contratto. Anzi, meno, perché come hanno evidenziato i Carabinieri vengono trattenuti alla fonte anche i costi del trasporto. Si lavora fino a dodici ore al giorno, sette su sette, in condizioni di lavoro “degradanti”. Sorvegliati a vista e sotto la costante “minaccia di non retribuzione in caso di minimo errore”. Alla fine della giornata vengono riportati in stazione. E ognuno si arrangia come può. C’è chi vive in casolari dismessi. Chi trova accoglienza nel centro della Caritas. Gli altri si accampano fuori dai centri o costruiscono baracche di fortuna lungo le rive del fiume Tanaro. Poche ore di riposo e il giorno dopo si ricomincia.

L’indagine dei carabinieri ha portato alla luce una quarantina di lavoratori vittime di sfruttamento. La maggior parte proveniente dal Gambia e dal Senegal, ma anche dall’Egitto e dal Bangladesh. Per trenta di loro è stato chiesto il nulla sta al rilascio del permesso di soggiorno per grave sfruttamento lavorativo. E sono stati presi in carico dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni che li ha trasferiti e inseriti in progetti del Sistema di Accoglienza Integrazione in altre parti d’Italia con l’obiettiovo di inserirli in diverse realtà imprenditoriali lontane dal luogo dello sfruttamento. Ma dietro ai casi evidenziati rimane un sommerso.

“Le eccellenze italiane come il Barolo che si producono in queste terre non possono basarsi su un sistema di sfruttamento e caporalato” racconta a ilfattoquotidiano.it Piertomaso Bergesio, segretario generale della Cgil Cuneo. “Su queste colline, specialmente nella zona di Alba, c’è un grado di omertà rilevante – aggiunge il sindacalista – in tanti conoscono ma in pochi denunciano una situazione che si trascina da anni. Le cooperative senza terra offrono ai produttori di vino manodopera a basso costo per la raccolta, in nero o con contratti in grigio. E i produttori non possono far finta di non sapere le condizioni alle quali sono sottoposti questi lavoratori”. L’appello del segretario della Cgil Cuneo è rivolto agli imprenditori: “Ai produttori che lavorano per il meglio dico di farsi promotori di un’iniziativa congiunta con tutti quelli che vogliono combattere il caporalato. Perché l’essere patrimonio dell’Unesco dovrebbe voler dire riconoscere la dignità a tutte quelle persone che concorrono allo sviluppo di questo territorio, a partire da chi vendemmia”.

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