Il 4 marzo è stato il primo giorno di scuola per Sila, che ha otto anni ed è palestinese. Insieme alla sua famiglia, è arrivata in Italia il 22 febbraio, da Gaza, stabilendosi a Siena insieme ai due fratellini Aaser e Youssef, la madre Asmaa e il padre Said. “È la bambina più appassionata allo studio che conosca, per lei fare i compiti e leggere erano i momenti più felici della giornata”, racconta a Ilfattoquotidiano.it il papà, cooperante dell’ong Acs- Associazione di cooperazione e solidarietà. “Domenica scorsa, però, prima di dormire mi ha detto che non voleva andare nella nuova scuola in cui la abbiamo iscritta qui in Toscana. Le ho chiesto la ragione: aveva paura che la bombardassero”.

Quest’anno Sila aveva iniziato la seconda elementare in un istituto primario del campo profughi di Jabalya, nel Nord della Striscia di Gaza, a pochi passi dalla casa da cui dopo l’inizio dell’invasione israeliana è dovuta scappare con la famiglia per trovare riparo dai bombardamenti. Come centinaia di migliaia di bambini nell’enclave palestinese, i figli di Said sono stati esposti a una pressione psicologica ed emotiva devastante, senza alcun mezzo in grado di aiutarli ad affrontare e processare la situazione. Come riportato da Save the Children, con le condizioni attuali di Gaza le bambine e i bambini manifestano tutta una serie di segni e sintomi di trauma, come ansia, preoccupazione per la propria sicurezza e dei propri cari, insonnia e allontanamento dai propri familiari. “Sono migliaia i bambini rimasti senza genitori, accuditi da altre famiglie o, nel peggiore dei casi, abbandonati a se stessi”, racconta Said che ha potuto riabbracciare i membri del proprio nucleo familiare quasi cinque mesi dopo l’ultima volta: “Il 7 ottobre ero in Europa per accompagnare un amico in visita a un parente malato. Non appena ho saputo dell’inizio degli attacchi nella Striscia ho fatto di tutto per provare a rientrare, ma con la frontiera sigillata a Rafah non c’è stato modo”, racconta il cooperante, ritornando a quelli che lui ha definito come i mesi più difficili della sua vita. “Sono un padre, un marito, un figlio. Oltre quel muro di 8 metri di altezza c’era tutta la mia famiglia, nel campo profughi più colpito dai raid dell’aviazione israeliana. Sono morti amici, parenti, compagni di una vita, non mi sono mai sentito così in pensiero come in questo triste anno”.

È stata Asmaa, insieme ad alcuni membri della famiglia di Said, a prendersi cura dei bambini durante i vari spostamenti nel territorio, prima nel centro della Striscia, a Deir El-Balah, dove sono stati accolti da amici, e poi a Khan Younis. “La forza dei miei cari mi ha aiutato a non impazzire mentre tentavo disperatamente di entrare a Gaza dall’Egitto”, spiega Said descrivendo i traumi che sua moglie ha subito nel corso dell’invasione israeliana: “Qualche giorno dopo l’inizio dei bombardamenti, un raid ha colpito l’edificio a sei piani della famiglia di Asmaa, dove risiedeva tutto il ramo da parte della madre, i Salem. È bastato un secondo, tre esplosioni. Sono morti tutti, 75 persone scomparse in un istante”. Un bilancio tragico, a cui si sono tristemente aggiunti poi i parenti dalla parte del padre: oltre 140 persone. “Quella settimana non ero ancora riuscito a chiamarla. Nel giro di cinque giorni non aveva più nessuno. Quando finalmente l’ho sentita, continuava a piangere dicendo ‘sono sola, non c’è più nessuno’. È stato uno dei momenti più bui della mia vita”.

Per quasi due mesi, Said ha provato a entrare nella Striscia facendo spola dal Cairo e, nel frattempo, a far uscire i propri cari interfacciandosi con l’ambasciata italiana a Gerusalemme. “Passati quasi tre mesi, avendo documento italiano, ho fatto richiesta di ricongiungimento familiare e ottenuto il nullaosta valido per oltrepassare il valico di Rafah”, racconta il volontario per cui le pratiche si sono dilungate un altro mese. “Ho presentato il modulo alle ambasciate del Cairo e Gerusalemme, insistito senza sosta per non finanziare le agenzie egiziane che lucrano sulla disperazione dei cittadini di Gaza. Alla fine, passati quattro mesi e mezzo, sono riuscito a farli uscire e a farli arrivare in Italia. Rivederli a Malpensa è stata un’emozione che non dimenticherò mai”.

Accanto alla felicità del ricongiungimento, però, Said vive con la continua preoccupazione per chi è rimasto nella Striscia: “Alcuni miei parenti sono ancora al nord, a morire di fame, senza possibilità di uscire di casa per i cecchini piazzati ovunque nel campo di Jabalya. “Ho chiamato mio fratello qualche giorno fa. Quando l’ho visto ho pianto, avrà perso almeno 15 chili, era pallido. Prego ogni giorno per un cessate il fuoco, per i miei cari, per poter tornare a casa ad abbracciarli”.

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