di Susanna Stacchini

Una vita di sacrifici, rinunce e duro lavoro non ti hanno impedito di gioire ed essere orgogliosa della nostra famiglia. Ti sei presa cura di tutti indistintamente, senza mai risparmiarti. Non riuscivi a dire no. China sulla macchina da cucire, con le mani sporche dalla tinta delle tomaie e avvolta dall’odore del mastice, hai lottato per poterci dare ciò di cui avevamo bisogno. Ci hai cresciuti con amore, regalandoci ora ricordi unici e indelebili.

Ricordo quando contribuivi ad inventare nuovi giochi e a rendere più belli gli altri, recuperando vecchi oggetti o costruendone di nuovi. Ricordo i pomeriggi d’inverno, quando tu, per non farmi stare sola, non esitavi ad ospitare le mie amiche a casa. Merende comprese. Ricordo tutte le volte che mi hai difesa da quel bimbo più grande che minacciava sempre di picchiarmi. Ricordo quando mi medicavi dopo una caduta e quanto io fossi inconsolabile. Ricordo la tua dolcezza e il tuo sorriso. Non mancavano mai. Ricordo di non averti mai vista piangere, anche se sono certa ti sia capitato molte volte.

Avevi già una famiglia pesante sulle spalle, quando a soli 23 anni sei diventata mamma e di una figlia come me, che non dormiva, mangiava poco e piangeva molto, insomma un disastro. Da grandicella, ti ritenevo pressoché infallibile. Davo per scontato che tu sapessi fare ogni cosa ti chiedessi. Ricordo i tuoi consigli, a me adolescente o poco più. E ancora più nitidi e preziosi, ricordo quelli che mi hai dato anni dopo. Da nonna, mi hai aiutata a fare la mamma, rigorosamente sempre in punta di piedi, con il fare di una donna semplice che sapeva molto della vita.

Poi, improvvisamente, tutto è cambiato. E’ morto babbo e il dolore di quel lutto è stato il tuo punto di non ritorno. Schiacciata dalla solitudine e da un silenzio per te assordante, ti sei adagiata su quel divano, senza più voglia di fare e interessi da coltivare. Poi, a poco a poco quella tristezza si è trasformata in stramberia e tu sei diventata sempre più “svampita”. Ci piaceva definirti così, sembravi meno malata. Dimenticavi sigarette accese qua e là per la casa. Dimenticavi i fornelli accesi, quindi bruciavi pentole, caffettiere e quant’altro. Riponevi biancheria sporca nei cassetti. Non ricordavi dove mettevi le cose, così passavamo ore a cercarle. Ti vestivi in modo bizzarro. Metà da estate e metà da inverno, con accozzaglie di colori improponibili. Rovistavi ovunque. Spendevi a caso. Insomma, era il caos.

Ma la mia angoscia più grande arrivava nei momenti in cui capivo che ti rendevi conto di ciò che ti stava succedendo. Nei tuoi occhi c’era solo disperazione e terrore. E io potevo solo accogliere il tuo dolore e assecondare la malattia, che non lasciava scampo. Progrediva inesorabile. Alla fine la memoria ti ha abbandonata definitivamente e ti sei tranquillizzata. Ora non devi più combattere per cercare di rimanere la donna che eri. Quella guerra, evidentemente impari, non potevi né vincerla né sostenerla ancora. Hai dimenticato molte parole, anche le più comuni. Pure gli oggetti un tempo familiari ti sono sconosciuti. La malattia ti ha privata dei ricordi, anche di quelli più cari. Non ci riconosci più. Figli, nipoti, fratello, niente. Nemmeno ricordi che siamo esistiti. Cerchi, aspetti e chiedi notizie del tuo babbo, del mio, della tua mamma, di tua sorella, tutti deceduti ormai da molti anni. La malattia ti ha rubato il passato, ti ha resa inconsapevole del presente e ignara di un possibile futuro, ma non si è portata via l’emozione di un attimo. La tua dolcezza, il tuo sorriso, la tua risata, il tuo essere permalosa. Tu puoi vivere solo l’istante, non ti è possibile altra dimensione, quindi meriti che quell’istante sia speciale.

Mamma, non sai chi sono né come mi chiamo, ma quando arrivo mi sorridi, mi baci e mi abbracci. E ancora di più quando ti saluto prima di andare via. E io pure ti coccolo, ti parlo, ti ascolto, cerco di proteggerti, esattamente come facevi tu quando la bambina ero io.

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