La Corea del Nord ci appare lontana e impenetrabile, una nazione-prigione tagliata fuori da qualunque scambio con il mondo globalizzato. E invece i crimini di regime che là si compiono arrivano fino a noi. Arrivano persino nel nostro piatto. E in particolare, nel pesce che compriamo al supermercato, o che mangiamo nelle mense di scuole e ospedali.

Come? Lo potete leggere in una lunga inchiesta pubblicata su FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez, nel nuovo numero in edicola da sabato 9 marzo. Si tratta della versione italiana del lavoro del giornalista statunitense, e premio Pulitzer, Ian Urbina, che con la sua organizzazione no profit The Outlaw Ocean Project indaga su su crimini, abusi e illegalità commesse nei mari aperti, fuori dalle giurisdizioni dei singoli Stati. Un lavoro di anni che lo ha portato ad approfondire, in quest’ultima inchiesta, il caso dei lavoratori nordcoreani che il regime di Pyongyang invia in Cina – l’unico Paese ad avere rapporti ufficiali di amicizia con il regime oggi guidato da Kim Jong-un – a lavorare in fabbriche e impianti di ogni tipo, trattenendo per sé gran parte del loro salario.

Fra i beneficiari di questa fornitura di manodopera senza diritti ci sono appunto diversi impianti per la lavorazione del pesce, che poi esportano il loro prodotto anche in Europa e Stati Uniti. Superando le mille difficoltà dovute alla chiusura ai giornalisti stranieri tanto della Corea del Nord quanto della Cina, il team giornalistico guidato da Urbina ha documentato per la prima volta i termini della fornitura di lavoratori fra i due Paesi, uniti al confine dal celebre Ponte dell’Amicizia, e soprattutto le brutali condizioni di lavoro riservate ai nordcoreani nelle fabbriche cinese.

Il team ha raccolto numerose testimonianze di stupri e molestie sessuali da parte dei dirigenti cinesi ai danni delle lavoratrici prestate da Pyongyang. Su venti di loro che è stato possibile intervistare, 17 hanno denunciato abusi sessuali. «Dicevano che ero scopabile e poi all’improvviso afferravano il mio corpo e mi palpavano il seno e mettevano la loro bocca sporca sulla mia e si comportavano in modo disgustoso», ha raccontato una donna che si occupava del trasporto di prodotti in uno stabilimento della città cinese di Dalian.

In generale, i lavoratori nordcoreani vivono come «prigionieri di guerra», come sintetizzato da un’altra testimonianza: fanno turni di 14-16 ore, riposano in dormitori, indossano divise diverse da quelle dei colleghi cinesi, sono pagati di meno e sono scoraggiati dal tentare la fuga con la paura di ritorsioni sui familiari rimasti a casa. Questa la realtà dietro le feste con bandierine e slogan di regime che si svolgono nelle fabbriche cinesi, che Urbina e colleghi sono riusciti a documentare grazie a video ripresi con gli smartphone da alcuni partecipanti.

L’inchiesta ricostruisce minuziosamente la filiera che dalle fabbriche-prigione arriva fino a noi. “Importatori collegati a stabilimenti cinesi che utilizzano manodopera nordcoreana riforniscono supermercati italiani”, si legge nell’inchiesta. Cité Marine, un gigante francese dei prodotti ittici, importa da Dalian Haiqing, una delle aziende cinesi che si avvale di manodopera nordcoreana. E poi rifornisce Carrefour Italia di filetti di pollock e merluzzo, oltre a pesce impanato e nuggets. Secondo l’inchiesta di The Outlaw Ocean Project, Cité Marine ha importato oltre 150 spedizioni di merluzzo e pollock da Dalian Haiqing dal 2019.

Ma l’inchiesta cita diversi altri marchi familiari ai consumatori di casa nostra, ma anche aziende meno conosciute, come DAC spa, nota anche come DAC Group, che importa da almeno due aziende che impiegano lavoratori nordcoreani, Donggang Jinhui Foodstuff e Dalian Haiqing Food Limited. DAC è un importante fornitore di enti pubblici italiani, tra cui scuole e strutture sanitarie, e si è aggiudicato almeno 17 contratti pubblici dal 2021. (Fra i soggetti citati, Cité Marine ha risposto alle richieste di chiarimento dei giornalisti, affermando di appoggiarsi a organismi di certificazione; Carrefour ha rimarcatola sua attenzione al tema e di aver informato il suo fornitore, Delpierre, che ha assicurato che nessun prodotto fornito a Carrefour proviene da Donggang Haimeng; Dalian ha assicurato di non avvalersi di manodopera nordcoreana, anche se molti elementi raccolti dall’inchiesta dimostrano il contrario).

Spesso le aziende sostengono di essere in regola con le norme sul lavoro perché hanno superato “audit sociali”, condotti da enti che ispezionano i luoghi di lavoro per individuare possibili abusi. Ma la metà degli stabilimenti scoperti a utilizzare lavoratori nordcoreani era certificata dal Marine Stewardship Council, un ente no profit impegnato sulla pesca sostenibile che concede la certificazione solo ad aziende che hanno superato audit sociali o altre valutazioni.

Leggi l’inchiesta completa su FQ Millennium di marzo, in edicola o sul nostro shop

LA PRECISAZIONE/Carrefour Italia: “Nessun rapporto con Donggang”

Rispetto a quanto affermato in merito all’inchiesta su Donggang Haimeng, Carrefour Italia conferma di essere estranea ad ogni relazione commerciale con l’azienda. In seguito alla segnalazione, il Gruppo Carrefour si è infatti messo in contatto con il proprio fornitore Delpierre per un’accurata verifica, il quale ha negato di rifornire Carrefour con prodotti provenienti da Donggang Haimeng.

Il Gruppo ribadisce il proprio impegno contro il lavoro forzato, e sottolinea di aver aumentato il livello di controllo sui propri prodotti e nello specifico sul pesce lavorato, inserendolo tra i settori sensibili all’interno del piano di vigilanza.
Ufficio Stampa Carrefour Italia

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8 marzo. Il diritto delle donne al lavoro è quello meno rispettato in Italia

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