Questo racconto di Lorena Spampinato è parte di una campagna nata dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin, quando presso la libreria Tuba di Roma si è svolta una lettura pubblica di “L’invincibile estate di Liliana” di Cristina Rivera Garza (SUR, 2023). Giulia Caminito e Annalisa Camilli hanno invitato scrittrici e giornaliste a scrivere per denunciare la violenza di genere e la cultura di sopraffazione che ne è il fondamento. Alla campagna hanno aderito oltre 80 scrittrici, dall’inizio di gennaio è iniziata la pubblicazione dei racconti su giornali, siti e blog. Il 4 marzo 2024 al Teatro Manzoni di Roma si terrà una serata di lettura degli articoli in sostegno dell’azione letteraria.
#Unite #Rompiamoilsilenzio


La cosa

di Lorena Spampinato

Scrivere è nominare, quindi dirò subito che la bambina in questa storia ha un nome e il nome è il mio. Lo faccio perché ogni volta che in questi anni ho pensato alla bambina ho guardato il suo metro e trenta d’altezza da troppo lontano perché potessi riconoscermi. Ho guardato, forse, la frangetta tagliata a tradimento, storta come i suoi denti o la sua schiena a forma di s. Ho guardato l’andatura saltellante, la gonna brutta e scampanata con in mezzo una cerniera, i calzettoni spessi. Ho guardato il giornaletto che teneva in mano: avvolto nel cellophane insieme a un gadget di plastica, a casa l’avrebbe scartato. Ho pensato alla bambina, in questi anni, guardandola come la guardava sua madre quel pomeriggio: sorvegliandola da un balcone, seguendo i suoi passi dall’alto. Da casa fino al chiosco dei giornali, e poi al ritorno. Pochi metri, duecento al massimo. Perciò ho esitato anch’io quando l’ho vista puntare i piedi a terra, titubante, come se avesse sbagliato un passo o rischiato di inciampare. Ho esitato anch’io, ho detto, ma non come ha esitato la madre che, vedendola improvvisamente ferma, dritta come un chiodo, di fianco a una brutta macchina bianca, avrebbe voluto prenderle un orecchio a pizzicotti e tirarla via da qualsiasi cosa avesse attirato la sua attenzione. Ho esitato, invece, come ha esitato la bambina quando ha sentito alla sua destra quel suono soffocato, appena udibile, che doveva provenire da una gola impastata di muco oppure di catrame. Ho esitato e ho piantato anch’io i piedi a terra, mentre da dentro una macchina qualcuno tirava giù un finestrino e diceva: Aspetta. Ho esitato, e ho guardato anch’io dove veniva la voce. Allora l’ho visto: il vecchio coi pantaloni calati che si agitava sul sedile della sua auto. La carne rosa e molle, terribile alla vista, come un organo interno portato alla luce da un grosso squarcio. Il pezzo di un cadavere, quello sembrava. Un fegato, un polmone. Qualcosa di orribile. Un’autopsia.

Quando mi sono allontanata non ho capito subito perché l’ho fatto. Sapevo solo di dovere andare via. Ho chiamato mamma e lei ha chiamato me. Quello non era più un luogo sicuro.

Scrivere è nominare, quindi dirò anche che per anni, nella mia testa, ho pensato a quell’evento chiamandolo la cosa. La cosa aveva una tonalità rossastra e un suono, simile a un respiro asmatico o al fischio di un naso otturato. La cosa aveva anche un odore, che era forse quello del sonno, del sudore nei cuscini. La cosa era un luogo segreto, l’interno di un uovo o di una pancia. Le bambine che si svegliano nel buio si ritrovano lì e non sanno che fare. È capitato anche a me. Ho respirato nella stanza provando a spiare la notte, poi ho alzato le braccia, ho chiamato mamma. Non conoscevo ancora la parola molestia, ma ne intuivo la muscolatura del termine, il suo peso in grado di schiacciarti, e squassare i rami delle piante e l’ordine delle lenzuola. Le cose senza nome pendono dal soffitto come braccia frenetiche. Le cose senza nome hanno occhi e orecchie e lingue e cosce piene di peli. A volte ti afferrano nell’oscurità.

Una bambina impara presto a camminare. Prima dei maschi. Quando accade tutti battono le mani. Dicono brava, avanti, ancora. Nessuno dice alla bambina che camminare, un giorno, le costerà fatica. Lo scoprirà da sola, crescendo. Ogni volta che, per strada, qualcuno interromperà la sua tranquillità per gridarle o sussurrarle oscenità. Ogni volta che qualcuno, dentro una macchina o dietro una via, vorrà ricordarle qual è il suo posto. Ogni volta che le pioveranno addosso fischi e complimenti, risate spaventose e qualcuno le dirà come deve sentirsi: lusingata, compiaciuta, allegra. Ogni volta che un gruppo di maschi penserà di divertirsi con poco, afferrandosi davanti a lei le parti intime e facendo suoni da caverna. Ogni volta che nelle strade buie telefonerà all’amica, alla sorella, dicendo: fammi compagnia. Ogni volta che riceverà una chiamata, dall’amica, dalla sorella, e dirà: ti faccio compagnia. Ogni volta che tornando a casa si guarderà alle spalle, e penserà di averla scampata.

Ogni volta che si chiederà perché, come ho fatto anch’io quel pomeriggio e poi quella sera, e tutte le sere a seguire, e non troverà risposte. Allora guarderà la mezzaluna fosforescente che brilla nella stanza, l’unica luna possibile. L’unica luna sicura. Un regalo di mamma, per le notti più buie.

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