Sul sito del Ministero degli Esteri è stato da poco pubblicato un nuovo bando per progetti congiunti di ricerca tra Italia e Israele. I campi di applicazione sono ancora una volta le tecnologie per il suolo, quelle per l’acqua, come trattamento di quella potabile, delle acque industriali e di scarico, o ancora progetti per la desalinizzazione e infine l’ottica di precisione, elettronica e tecnologie quantistiche. Il bando finanzierà un massimo di 11 progetti, con il Maeci che si impegna a coprire il 50% dei costi.

Fin qui nulla di nuovo rispetto a quanto già previsto negli anni passati. Italia e Israele portano avanti da tempo progetti di ricerca congiunti in ambito scientifico e industriale, come si può vedere anche sul sito dei ministeri coinvolti e da sporadiche note stampa. Il bando appena indetto, però, non tiene conto di quanto sta accadendo da ottobre a Gaza. Nel testo infatti non è riportata alcuna clausola che vieti lo sviluppo di tecnologie dual-use, utilizzabili cioè sia per fini militari che civili. Così, mentre il governo annuncia lo stop alle esportazioni di armi verso Israele per ciò che sta accadendo a Gaza, annuncio non seguito dai fatti secondo un’inchiesta di Altreconomia, dall’altra finanzia progetti senza escludere, in settori sensibili, tecnologie dual-use, ossia riutilizzabili in ambito militare.

Il punto più problematico è quello che riguarda la ricerca nell’ottica di precisione, elettronica e in tecnologie quantistiche. Il bando fa esplicito riferimento, come esempio, solo ai “rilevatori di onde gravitazionali di nuova generazione”, impiegati nel settore spaziale, ma l’ambito di ricerca previsto dal documento del Maeci è di più ampia portata. Fare ricerca nell’ottica di precisione ed elettronica comporta il rischio che le tecnologie finali siano usate anche per usi militari, ad esempio nella sorveglianza e nel controllo a distanza. Un’ipotesi ancora più problematica considerando lo stretto rapporto che lega le università israeliane e il settore militare.

Quella sulle tecnologie dual-use sarebbe quindi una specifica necessaria dato che nel 2021 uno dei progetti vincenti ha visto la partecipazione della Elbit Systems Ltd, una delle più grandi aziende belliche israeliane. Aziende che notoriamente testano i loro prodotti militari e di sorveglianza sui palestinesi, come riportato chiaramente anche sulle loro brochure. Nei siti di Elbit e di altre industrie della Difesa è facile trovare diciture come “ground-tested” o “combat proven” per rimarcare che l’efficacia dei loro prodotti è stata già testata sul campo (ossia su Gaza e Cisgiordania).

Contro questo bando si sono espressi anche accademiche e accademici delle Università italiane che in una lettera aperta al ministero hanno chiesto la sospensione della cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra le università e i centri di ricerca italiani e israeliani “con lo scopo di esercitare pressione sullo stato di Israele affinché si impegni al rispetto del diritto internazionale”. Nella lettera si ricorda anche la dichiarazione rilasciata a fine febbraio dagli esperti delle Nazioni Unite, secondo cui gli Stati dovrebbero bloccare il trasferimento di armi e tecnologia militare verso Israele, quindi anche ricerca e know-how, poiché c’è il rischio che siano usate in violazione del diritto internazionale umanitario.

Per il governo italiano, però, nemmeno l’export di materiale militare verso Israele sembra rappresentare un problema. Nonostante le dichiarazioni di diversi ministri, l’invio di armi e munizioni verso lo ‘Stato ebraico’ è proseguito anche tra ottobre e novembre, quando il massacro di civili a Gaza era già in pieno svolgimento. A svelarlo è stato Altreconomia che ha consultato i dati Istat sul trasferimento di “armi e munizioni” verso Israele. Secondo la rivista, non è possibile avere informazioni anche su altri materiali come i componenti per velivoli e mezzi terrestri o sistemi elettronici, ma le informazioni disponibili sono sufficienti a sconfessare il governo italiano.

Tornando al bando del Maeci, c’è un altro aspetto ugualmente preoccupante da tenere in considerazione: le ricerche sull’acqua e il suolo. Come denunciato da Amensty, Israele nega un adeguato accesso all’acqua alla popolazione palestinese nei Territori occupati, mentre negli insediamenti israeliani vengono persino installati sistemi di irrigazione. Ancora più preoccupante la situazione a Gaza, dove già prima di quest’ultima operazione militare il 97% dell’acqua non era potabile, secondo le statistiche dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari. Gli stessi insediamenti di coloni, poi, rappresentano appieno l’appropriazione illegale di suolo da parte di Israele, che salvo rari momenti storici ha sempre incoraggiato questa sottrazione di territori alla popolazione palestinese.

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