Ai pazienti ci si può affezionare moltissimo, anche se sono arrivati su ordine di giudice perché socialmente pericolosi, anche se sono stati sottoposti a un trattamento sanitario obbligatorio, anche se sono scappati due volte attraverso una rete e sono stati ripescati graffiati e impauriti in centro paese dopo aver attraversato il bosco pieno di rovi. Del resto per Alfredo Sbrana, psichiatra che ha ancora negli occhi i sei metri di muro dell’ospedale psichiatrico giudiziario (opg) di Montelupo fiorentino, la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (rems) di Calice in Cornoviglio, abbarbicata su una collina in provincia di La Spezia, è un “posto magico” circondato da castagni “che in autunno ci forniscono una quantità impressionante di castagne buonissime, di cui noi ci approvvigioniamo e forniamo anche ai pazienti”.

Un’immagine di piccola oasi quella del direttore sanitario, in pensione dopo una vita tra opg e poi rems di Volterra e che ora lavora per la cooperativa che gestisce per conto Asl 5 la struttura di Calice. che contrasta con la descrizione del Garante dei detenuti e delle persone private della libertà, fatta poco meno di un anno fa dopo una visita, che ne evidenziava “la natura prettamente custodiale” con il rischio come per gli altri centri “di riproporre logiche di internamento”.

Però quel ragazzo tunisino, agitato e “pericoloso” entrato nel cuore dello specialista, dopo alcuni mesi di terapia, non solo ha potuto lasciare la Rems ma tornare a casa e invitare lo psichiatra al matrimonio e ora, come prima del suo ricovero, fa il rapper. “È arrivato che era un fulmine di guerra, evaso due volte, due delle tre evasioni le ha fatte lui, un metro e 90 per 120 chili, come ha fatto a scavalcare le reti lo sa solo lui. Sostanze psicotiche et cetera, trattato per quattro mesi. Poi una volta rientrato, ha cominciato a partecipare a tutte le attività, l’abbiamo trasferito a Castiglione delle Stiviere, c’è stato un mese e poi l’hanno rimandato a casa sua, in Tunisia, da dove mi ha telefonato per invitarmi al suo matrimonio”. “Ma come facevo ad andare in Tunisia?” si rammarica lo specialista che riceveva settimanali telefonate dalla mamma e che parla del caso di questo ragazzo con la soddisfazione di chi ha restituito la salute a un paziente e un giovane uomo sano alla società.

Un reinserimento che comunque per Sbrana sarebbe stato più difficile se “Ahmed” fosse stato ospite di un opg. “Non sarebbe stato possibile. Perché c’era meno attenzione. Cioè, noi ci stiamo tantissimo sul fatto che facciano le terapie, che facciano delle terapie mirate e che facciano terapie, cioè non soltanto farmacologiche, anche psicoterapiche e anche riabilitative. Lì si tendeva a esercitare il contenimento, poi il fatto della terapia era alquanto aleatorio, perché poi tutto sommato non c’era tanto bisogno di insistere sulle terapie, perché tanto poi c’erano le guardie che provvedevano al controllo fisico delle persone”.

L’empatia che Sbrana ha con alcuni dei suoi ragazzi è evidente: lo cercano, gli chiedono con gli occhi liquidi “chi sono questi signori”, gli sorridono e lo avvolgono con le braccia e lui restituisce l’abbraccio che tranquillizza. “Qui riceviamo pazienti, unica struttura in Italia, provenienti dal carcere: soltanto dal carcere, oppure dall’Spdc, cioè da un servizio di psichiatria di diagnosi e cura, però pazienti che comunque provengono dal carcere. Cioè a volte in carcere divengono paradossalmente ingestibili, li mettono in Spdc in reparto di psichiatria, e lì rimangono messi. Dopodiché diventa assolutamente impropria la loro permanenza lì e noi li prendiamo – spiega mentre nel piccolo fazzoletto di verde dietro di lui due pazienti fanno qualche esercizio e una corsetta -. Ne abbiamo presi quasi 39-40, in totale, in un anno e mezzo, e ne sono andati via 22. Però abbiamo fatto anche di più, perché in realtà 9-10 pazienti, dei 22 usciti, li abbiamo sistemati in strutture di secondo livello, cioè in comunità”.

Le stanze per i 20 pazienti, 17 gli ospiti al momento della visita del FattoQuotidiano.it, hanno le porte blindate, ci sono le grate e i codici di sicurezza per accedere alla parte destinata a questi uomini, perlopiù giovani e la metà straniera, che devono fare un po’ di un pizzico di attenzione se non vogliono che il pallone di cuoio che hanno a disposizione nel giardino non faccia scattare la sirena della rete allarmata. “La sfida più grossa consiste nel fatto che alla fine a noi arrivano i pazienti più difficili; i pazienti meno gestibili dalle altre Rems, meno gestibili nelle carceri e quindi poi ci troviamo a dover di gestire qui senza più avere quello che che invece esisteva negli Opg cioè la custodia – spiega Sbrana che non perde mai il sorriso mentre racconta e ricorda – Quindi su che cosa ci dobbiamo basare noi per poterli gestire? Su un clima interno buono, sul fatto che facciano le terapie, che seguano le terapie specifiche, mirate e ben condotte e sul turn-over. Cioè quando cominciano a vedere che i loro compagni escono, sono più motivati a osservare il programma“.

Un programma scandito da tappe ben definite durante la giornata e dalla terapia, tre volte al giorno. Gli ospiti hanno una routine scandagliata da orari precisi, un sacerdote una volta al mese, alcune attività mensili, ma nessun rapporto con il mondo esterno, a cui si sta rimediando con iniziative, anche perché la presenza della Rems è stata guardata con preoccupazione dai residenti della zona. Quelli che sono anche pazienti per Sbrana e le altre professionalità che lavorano nella struttura, sono solo assassini e violenti per tutti gli altri. In una stanza ci sono i libri, una Wi, lavori in carta pesta, disegni “alcuni pregevoli” come dice orgoglioso Sbrana. Che alla domanda sulla stanza di de-scalation da usare quando i pazienti diventano aggressivi dice: “È un anno che non la usiamo”.

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