Un governo “tracotante” sull’ordine pubblico, “freddo” sui diritti di chi manifesta, sciopera o partecipa a una festa e “sordo” rispetto ai moniti del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Gaetano Azzariti, professore ordinario di Diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, però più di tutto prova “stupore per il silenzio del presidente del Consiglio” sulle manganellate ai ragazzini di Pisa. “Questo era un caso in cui il presidente del Consiglio si doveva assumere la responsabilità di dire la sua e non far parlare il ministro o il partito con un comunicato. Era il caso, in qualche modo, di assumersi le sue responsabilità” dice il giurista interpellato dal FattoQuotidiano.it.

Le manganellate di Pisa sono un campanello d’allarme per la democrazia?
L’allarme è dettato dal cambiamento della concezione dell’ordine pubblico, non più preposto a evitare violenze o azioni di “sovversione organizzata”, ma per reprimere il dissenso espresso in piazza nelle forme costituzionalmente tutelate della “riunione in luogo pubblico”. Quello che colpisce a Pisa, le immagini sono francamente impressionanti, è che la violenza è esercitata su dei sedicenni che chiaramente non hanno nessuna intenzione sovversiva nei confronti della stabilità dello Stato. Questo rende quella carica del tutto ingiustificata. Ricordo che anche se non vi è stato “preavviso”, le manifestazioni in piazza non richiedono di essere “autorizzate” ed eventuali limitazioni o divieti possono essere giustificati solo per “comprovati motivi di sicurezza o pubblica incolumità”. Presupposti evidentemente assenti nel caso dei ragazzini pisani, ma anche in altri avvenuti di recente. Qui si utilizzano strumentalmente le ragioni di ordine pubblico e sicurezza per contrastare il diritto di manifestare pubblicamente le proprie opinioni. In fondo è così da sempre: l’ordine pubblico rappresenta storicamente una cartina di tornasole che segnala lo stato dei rapporti tra autorità e libertà. In un ordinamento democratico l’ordine pubblico deve essere concepito soltanto come uno strumento di difesa contro la violenza. Mentre negli ordinamenti autoritari si registra sempre un uso “ideologico” della nozione di ordine pubblico. Tanto più si allarga la nozione (e dunque l’uso a fini repressivi) di ordine pubblico, tanto più questo va a scapito dei diritti.

Il ministro Piantedosi, però, forse prevedendo riflessioni di questo tipo, ha detto che nulla è cambiato rispetto al passato sull’ordine pubblico e che ci sono soltanto “responsabilità individuali”. Ma in corteo c’erano studenti e non i pericolosi black bloc.
Piantedosi pensa forse che quei sedicenni avessero intenzioni sovversive? Ovvero che queste persone volessero fare un uso collettivo della forza per aggredire qualcuno degli obiettivi sensibili nelle vicinanze? Se non sussistevano tali presupposti o intenzioni, e mi sembra difficile dimostrare che si trattasse di una riunione violenta, allora è evidente che c’è stato un abuso. Ma poi, dicevo in precedenza, questi scontri di piazza sono ormai diffusi (Roma, Torino, Firenze). Evidentemente c’è un clima che si sta determinando, che permette l’aggressione dei manifestanti in casi che non sono quelli di cui all’articolo 17 della nostra Costituzione che – ripeto – può giungere a vietare le manifestazioni “soltanto per comprovati motivi di sicurezza e l’incolumità pubblica”.

Non c’erano i presupposti
Non risultano visivamente, direi ancor prima che di fatto. A Torino, così come a Pisa così come a Firenze le cariche sono state ingiustificate. Tenga presente che i motivi devono essere “comprovati”, non supposti o immaginati. Ad aggravare la situazione di abuso, si può anche ricordare che sono vietate le manifestazioni non pacifiche e armate. Ma appunto è la violenza fisica – tanto più se armata – che rappresenta il limite, mai le idee professate da chi manifesta, mai la violenza può essere quella delle opinioni che si professano. Poi, ancor di più nei casi richiamati. In tutte queste manifestazioni si esprimono legittime opinioni. Legittimi pensieri, tra l’altro, su questioni molto controverse: la guerra in Palestina, una questione che divide e su cui ben si può manifestare contro le diverse opinioni espresse dal governo. Se il governo adotta una politica che è – o anche solo appare – favorevole del governo israeliano, la piazza può manifestare per l’idea opposta. Fintanto che non ci siano armi o violenze.

Il presidente Mattarella è intervenuto sottolineando il “fallimento” dell’uso dei manganelli, il ministro dell’Interno ha detto: “Valuteremo, vedremo”. Non è insolito?
Se posso interpretare il sentimento di Mattarella, cosa che mi permetto di fare con titubanza, mi sembra che sia molto preoccupato dello scadimento della convivenza civile, dell’imbarbarimento dei rapporti civili. Il giorno prima di questo intervento nei confronti della violenza sugli studenti, aveva pronunciato parole preoccupate di fronte ai ragazzi per criticare le manifestazioni di violenza verbale nei confronti del presidente del Consiglio. Il giorno dopo è intervenuto con una dichiarazione ancor più significativa, non più rivolta ai ragazzi, ma con una diretta telefonata al responsabile degli Interni, il quale dichiara la sua preoccupazione per le violenze fisiche, non più verbali, fatte non più dalla piazza (ovvero da esponenti politici), ma dal potere, dalle forze di polizia. Nel comunicato si riferisce che il ministro è d’accordo. Il giorno dopo, però, il ministro rilascia un’intervista nella quale sostanzialmente prende le distanze da se stesso: dimostrando che non era poi così d’accordo con il presidente. Minimizza i fatti di Pisa, concedendo che farà degli accertamenti rituali, ma rivolgendo la propria solidarietà alle forze dell’ordine, fornendo, inoltre, una interpretazione minimale delle stesse parole del presidente. D’altronde questo fa il paio riguardo alla politica del governo. Lei mi dice che si è stupita di Piantedosi, ma io sono ancora più stupito del silenzio della presidente del Consiglio.

Era la prossima domanda. Molti osservatori hanno notato che da Palazzo Chigi non è arrivato nessun intervento.
Certo ci si può sempre richiamare al “diritto al silenzio”, ma forse sarebbe il caso di ricordarsi anche dei doveri legati alla funzione che viene ricoperta. Spetta al presidente del Consiglio di prendere posizione sulle questioni più delicate del Paese. Questo era un caso in cui il presidente del Consiglio doveva – dovrebbe – assumersi direttamente la responsabilità e non limitarsi a far parlare il ministro o il partito. A me sembra che questo governo sia piuttosto insofferente nei confronti dei moniti del Capo dello Stato e che li lascia sempre cadere. Salvini ha persino espresso valutazioni chiaramente in contrasto con quelle presidenziali.

Salvini ha dichiarato di stare dalla parte della polizia, come tutto il resto del governo.
Esatto. Quindi c’è una certa sordità o quanto meno freddezza nei confronti di moniti del Capo dello Stato. E devo dire che la freddezza del governo si accompagna ad una parallela freddezza nei confronti dei diritti in generale. Non solo con riferimento alla tutela dell’ordine pubblico, di cui stiamo parlando, ma c’è stato anche un uso molto poco attento ai diritti in alti casi: nelle vicende della precettazione per il diritto di sciopero, ad esempio. Il ministro Salvini usa in modo molto inusuale e disinvolto questo suo potere – che pure ha – nei confronti di un diritto costituzionalmente protetto. Se poi aggiungiamo i pacchetti sicurezza e se vogliamo ancora il decreto anti-rave in qualche modo si dimostra una visione restrittiva nei confronti delle libertà delle persone, dei diritti di libertà delle persone. E poi ancora…

Cosa?
C’è un clima che è la cosa più preoccupante. L’insegnamento del governo si diffonde. Io sono a Roma e sono rimasto colpito dalle misure così drastiche che si stanno prendendo nei licei romani nei confronti dell’occupazione degli studenti, che evidentemente mostrano un disagio ma anche una volontà di partecipazione. E in molte scuole la reazione è stato un cinque di condotta generalizzato, una richiesta di risarcimenti eccessivi dei danni che ci dicono essere stati provocati dagli occupanti e da un’intimidazione nei confronti degli studenti nei confronti di atti che dovrebbero essere risolti dalla buona scuola, non attraverso la repressione ma eventualmente attraverso un dialogo. Io sono all’università, ma di fronte agli studenti che in qualche modo vengono a criticare il sapere che viene trasmesso dialogo, non chiamo le forze dell’ordine. Questo è un clima generalizzato di insofferenza nei confronti dei diritti, a tutela di un ordine. Ma d’altra parte questa destra ha questa cultura.

Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky in una intervista non soltanto critica il premierato, ma di fatto sostiene che è che in questo clima iniziano i regimi. Mi vuole offrire la sua riflessione sul premierato e su quanto possa incidere sulla democrazia?
Non c’è dubbio che se abbiamo rilevato una sordità oggi nei confronti del presidente, vigente la nostra forma di governo parlamentare, domani non lo si ascolterà proprio. Con la riforma vengono ridotti sostanzialmente non solo i poteri, ma anche la sua legittimazione politica. Sarà quindi conseguenza inevitabile che gli venga ridotto anche l’ascolto istituzionale. Dopo la riforma un presidente dimidiato parlerà senza nessuna possibilità di essere ascoltato da un Presidente eletto dal popolo.

Pisa, i decreti sicurezza, la precettazione, il premierato. Ritorno alla prima domanda, c’è quindi un campanello d’allarme per la democrazia?
La mia maggiore preoccupazione è nei confronti di una sempre minore sensibilità nei confronti dei diritti e di un aumento di tracotanza del governo. Questi si difende affermando che in fondo nulla è mutato: tutti i governi hanno tutelato l’ordine pubblico e le cariche della polizia ci sono sempre state. Piantedosi ha detto espressamente che ‘non è cambiato nulla’. A tutto concedere, non è cambiato nulla nella forma, ma nella sostanza è cambiato molto. È un po’ lo stesso ragionamento del premierato. Non si cambiano i poteri formali, ma si cambia collocazione e estensione di poteri del Capo dello Stato. Se cambi le prassi, cambi la sostanza del potere e i confini del suo utilizzo. È così che oggi si afferma un uso dell’ordine pubblico, un uso della forza pubblica evidentemente molto diversa dal passato. Una rottura di continuità che attraversa i modi e l’uso del potere. Si pensi allo strumento dell’identificazione. Il problema non è l’identificazione in sé, ma il luogo e la situazione in cui avviene. Identificare chi porta fiori per Navalny oppure il loggionista che grida alla Scala che l’Italia è antifascista è evidente che ha una simbologia politica ed esprime una cultura politica diversa. Nel primo caso – che ha dell’incredibile – vanno a portare dei fiori a un martire riconosciuto su cui già il governo si pronuncia poco e tu li identifichi! Perché? Quali i presupposti che ti inducono a voler sapere pubblicamente chi sono? È così anche per il loggionista che urla viva l’Italia antifascista. Francamente, anziché in caso elogiarli, identificarli rappresenta un atto indiretto intimidatorio che esprime un clima. Tornando poi al caso specifico dell’ordine pubblico, forse si sono addirittura commessi degli illeciti: spero che ci sia una indagine approfondita su questi fatti. Ma, ripeto al di là dei fatti particolari, sono le modalità e l’uso allargato degli strumenti repressivi che determinano un clima di contrasto o di insofferenza nei confronti dei diritti a favore dell’ordine e della sicurezza.

Ma questa tracotanza che lei intravede, questa freddezza rispetto ai richiami del Capo dello Stato non assomigliano a qualcosa che abbiamo già vissuto un po’ di tempo fa, prima che l’Italia diventasse una Repubblica? Io penso al periodo che ha preceduto l’avvento del fascismo.
Io le rispondo che la storia non si ripete mai nello stesso modo: una volta in tragedia, l’altra volta in farsa. Speriamo che sia soltanto una farsa e non si traduca in tragedia.

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