All Star Weekend da ripensare?
Come spesso accade ormai da diversi anni, l’All Star Weekend ha catalizzato una pioggia di pareri tra il critico e l’indignato da parte di commentatori, ex giocatori, media americani. È da ripensare la sua formula? Solo la NBA, dati alla mano, può rispondere a questa domanda. Qui, invece, alcuni fatti. Senza particolari giudizi. La Slam Dunk Contest (gara delle schiacciate) era sempre stato l’appuntamento più affascinante del fine settimana, un evento in grado di accendere l’immaginario collettivo. Dove Michael Jordan staccò dalla linea di tiro libero per la mitica schiacciata alla “Carl Lewis”. Vi hanno partecipato nomi come Kobe Bryant, Scottie Pippen, Dominique Wilkins, Vince Carter o Julius Erving e anche Kareem Abdul Jabbar. Quest’anno, Jaylen Brown era l’unico vero giocatore di richiamo tra i partecipanti, per quanto ben lontano dallo status di stella di prima grandezza. Per il resto, due rookie (Jaquez e Toppin), e il due volte campione Mac McClung (degli Osceola Magic), che però la NBA l’ha vista davvero col binocolo. È chiaro che questo evento non è più in grado di richiamare nomi altisonanti, la cui partecipazione varrebbe molto di più del livello delle schiacciate esibite in gara. Poi ci sono anche quelle, le schiacciate. Nel 1994, JR Rider vinse con una schiacciata a una mano dopo essersi fatto passare la palla sotto a una gamba in volo: la gente gridava quasi al miracolo. Oggi, magari, la vedi fare a qualsiasi liceale in contropiede su YouTube. Si è davvero visto di tutto ormai, è difficile impressionare. E se non lo si è visto allo Slam Dunk Contest, lo si è visto in Rete, dove impazzano gli schiacciatori professionisti (stile Jordan Kilganon, che fa clamore in quanto a stacco da terra e creatività). Passiamo alla “partita delle stelle” vera e propria, quella che si gioca la domenica. Qui c’è poco da dire. Non è che in passato i vari Patrick Ewing o David Robinson difendessero come se fosse una partita di playoff. Così come non si pretende che Kevin Durant o Nikola Jokic difendano fino alla morte oggi. Però, c’è anche una via di mezzo tra impegno difensivo e guardarsi due ore di alley-oop non contestati, schiacciate uno contro zero, o tiri da centro campo (Luka Doncic ha preso la tabella tirando dalla propria tre-quarti di campo). Non perché ci sia qualcosa di male. Le motivazioni sono tutte legittime (i giocatori non vogliono rischiare di infortunarsi per esempio…). Semplicemente non è poi così divertente. Su questo ci sarebbe da riflettere. Probabilmente la NBA lo farà, se non lo ha già fatto.

Zion Williamson può portare lontano i Pelicans?
Può un centro di 1.98 metri senza un minimo di gioco perimetrale essere la pietra angolare su cui costruire una squadra in grado di vincere per davvero quando conta? Questo è quello che dovrebbero chiedersi i New Orleans Pelicans pensando a Zion Williamson. E questo al di là dell’attuale record di vittorie (60%, che non è male). Si lascino perdere le polemiche sulla forma fisica (che comunque è cosa rilevante), si tengano fuori gli infortuni che lo hanno tenuto fuori dal campo per moltissimo tempo. Tecnicamente, Williamson è al momento ancora un realizzatore interno (come da rookie), al suo meglio nelle situazioni dinamiche, quando può sorprendere gli angoli difensivi degli avversari con la sua esplosività, la sua irruenza, la sua potenza al servizio di una massa fisica da 130 kg. Imbeccato su una delle corsie laterali, c’è da dire, sembra Shawn Kemp con 20 kg di muscoli in più. Ma con questo stile di gioco, i nodi rischiano di venire sempre al pettine nei playoff. Le difese cambiano, si fanno più attente, si adeguano di partita in partita. Visto in una recente vittoria dei Pelicans contro i Memphis Grizzlies uscire spesso fuori dal ritmo in attacco, perché tendeva a volersi infilare in penetrazione a tutti i costi, anche quando gli avversari riuscivano a chiuderlo sul primo passo (sia andando verso destra che ruotando verso il centro area). Sembra non avere altre armi al di fuori dell’entrata di potenza o del contropiede. Sembra avere poche soluzioni alla fine. Il fatto che non sia minimamente pericoloso al tiro da fuori, fa tutta la differenza di questo mondo, sia per la tipologia di giocatore che è Williamson, sia per il tipo di ruolo che dovrebbe ricoprire nel roster di New Orleans. La difesa gli lascia due-tre metri di spazio, lo “battezza” al tiro nove volte su dieci sia da tre che dalla media. In assenza di miglioramenti concreti al tiro da fuori, ai liberi, e nel palleggio (auspicabili), risulterà sempre un po’ prevedibile come prima opzione offensiva per le squadre avversarie. Poi c’è la questione difesa, ambito in cui non si è mai distinto per impegno. E i rimbalzi, che sono 5.4 di media, un po’ pochi per ruolo, stacco da terra, e posizione in campo. Certo, le partite da 30-35 punti sono sempre dietro l’angolo, il giocatore ha talento. Ma per vincere, in NBA, serve anche altro.

That’s all Folks!

Alla prossima settimana.

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