La “fabbrica d’Europa” degli elettrodomestici è finita nella mani delle multinazionali tornando indietro di quindici anni. Era il fiore all’occhiello del settore manifatturiero dell’Italia, combinando qualità e quantità apprezzate oltreconfine, formando la triade d’oro insieme ad acciaio e automotive, ora invece l’industria del bianco vede nero dopo essere finita nella centrifuga dei grandi player internazionali. Cessione dopo cessione, cosa è rimasto dei grandi marchi italiani e quale sarà il loro destino e quello delle decine di migliaia di addetti della filiera? Quindici anni di laissez faire di ogni governo hanno scolorito il “made in Italy” e ora il governo Meloni promette di frenare la perdita di occupazione e quote di mercato. Così è partito un tavolo al ministero delle Imprese con sindacati, imprese e istituzioni. Ma le armi – avvisano i sindacati – sono spuntate se non si immagina il settore come un “pilota” per la riforma degli strumenti in mano al potere esecutivo, dagli incentivi al golden power. Bisogna fare in fretta perché le avvisaglie di una crisi durissima sono dietro l’angolo. “L’elettrodomestico non deve passare la nottata, ma affrontare un cambiamento strutturale – dice Barbara Tibaldi, componente della segreteria nazionale della Fiom-Cgil e responsabile dell’elettrodomestico – Il governo ha messo l’etichetta di ‘made in Italy’ al ministero delle Imprese, dimostrino che non è stata un’operazione di facciata”.

I numeri del settore
Il mercato è in contrazione da due anni con una riduzione significativa dopo il periodo della pandemia: i volumi sono scesi del 6% nel 2022 e del 2% nel 2023. La produzione nel biennio? Calata del 18% due anni fa e del 16,4% negli ultimi dodici mesi, spingendo l’Italia ai livelli peggiori del quinquennio 2009-2014 con meno di 10 milioni di pezzi prodotti, un terzo rispetto all’inizio del millennio. Tutto è sostanzialmente in mano a Whirlpool, Electrolux e Hayer, oltre a nicchie di eccellenza che resistono come Smeg e altri marchi nel Fabrianese. Le tre multinazionali la fanno da padrone con circa 10mila dipendenti diretti e attorno a loro si muove un mondo di fornitori e componentistica che conta altri 3mila lavoratori. Il 2023 è stato un anno nero con interventi di cassa integrazione e contratti di solidarietà in tutti i siti, oltre ai 373 esuberi dichiarati da Electrolux. Il grosso degli impianti è concentrato tra Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Marche, un quartetto che dovrebbe allarmare l’esecutivo trattandosi di quattro regioni amministrate dal centrodestra con le ultime due, dove le filiere sono più radicate sul territorio, che torneranno al voto il prossimo anno. “La realtà – spiega Tibaldi – è che oggi noi siamo disarmati. Negli scorsi anni le multinazionali hanno preso marchi e quote di mercato, nel silenzio generale, e ora si stanno organizzando diversamente”. Nel frattempo si è contratto il mercato, una discesa a causa dei costi di energia e logistica.

L’addio di Whirlpool
Così anche un colosso come Whirlpool, già al centro della vertenza di Napoli negli scorsi anni, ha deciso di uscire da un mercato difficile come quello europeo e ha venduto il 75% delle attività continentali ai turchi di Arçelik, noti per il marchio Beko. Manca solo il via libera dell’Antitrust Ue, atteso entro qualche settimana, poi la cessione sarà definitiva. Lo spettro di un taglio radicale è reale, visto che Arçelik ha già stabilimenti nell’Unione Europea che sfornano prodotti simili a quegli che escono dai cinque stabilimenti italiani che occupano 4.500 lavoratori già costretti a sopportare un 2023 complicato. La cassa integrazione con fermo per almeno un mese ha interessato Cassinetta, dove si producono frigoriferi da incasso e forni, gli impianti di Melano, dove si assemblano piani cottura, e Siena, specializzata in frigoriferi e congelatori a pozzetto. Quindici giornate di cassa integrazione anche a Comunanza, dove si producono lavatrici e asciugatrici, mentre nel magazzino ricambi di Carinaro gli operai hanno trascorso l’intero anno con il contratto di solidarietà.

L’allarme in Electrolux e Haier
Non se la passano meglio in Electrolux, la multinazionale svedese che conta 4.300 dipendenti in Italia distribuiti negli stabilimenti di Porcia, Susegana, Solaro, Forlì e Cerreto D’Esi producendo lavatrici, asciugatrici, forni e piani cottura, lavastoviglie e cappe d’aspirazione. La società si assesta su volumi produttivi inferiori a quelli previsti nei piani industriali presentati ai sindacati e ha annunciato 373 esuberi che interesseranno principalmente lo stabilimento di Porcia, dove gli operai sono in solidarietà da ottobre, con 100 persone a rischio. Quaranta esuberi sono previsti anche a Susegana e altri 30 sono previsti a Forlì. A Solaro, nel Milanese, si sta lavorando su turni ridotti a 6 ore da inizio febbraio e andrà avanti così anche per tutto marzo. “Electrolux ha fatto parecchi investimenti negli anni passati – sottolinea Tibaldi – ma ora pretende che si conviva con licenziamenti e cassa integrazione mentre chiede di alzare i ritmi produttivi negli stabilimenti. Non stanno facendo altro che massimizzare i profitti sulla pelle dei lavoratori”. I sindacati sono in allarme anche per la situazione dell’Haier di Brugherio: l’ex Candy occupa poco più di 900 dipendenti nella produzione di lavatrici e tra 5 mesi scade il contratto di solidarietà. Senza un intervento in deroga, c’è il rischio concreto di licenziamenti.

“L’elettrodomestico sia settore pilota”
“Il ministro Adolfo Urso ha detto lo scorso 1 maggio che aveva agito con il golden power, impegnando Arçelik per un periodo determinato di tempo a non fare licenziamenti. Ma forse è arrivato il momento di ripensare lo strumento, usando l’elettrodomestico come settore pilota: discutiamo di cosa è il golden power e chiamiamo le parti prima che inizi la trattativa. Fissando paletti stringenti”, chiede Tibaldi. La Fiom è critica anche sulla possibilità di utilizzare incentivi a pioggia: “Si rischia di sussidiare la vendita di prodotti che arrivano dall’estero. Chiediamo che vengano fornite risorse per l’innovazione e che gli incentivi spettino solo a chi porta produzioni in Italia e mantiene i livelli produttivi – dice ancora Tibaldi – Dicono di essere il governo del ‘made in Italy’, lo dimostrino. Altrimenti non staremo a guardare”. La prospettiva del governo è quella di un piano industriale di settore nel 2030: “Se aspettiamo sei anni – conclude – corriamo il rischio di ritrovarci con il settore in una condizione di malattia terminale non più curabile”.

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