“Nelle ultime due settimane abbiamo celebrato il funerale di due persone che accoglievamo nei nostri servizi”. La riflessione sull’aumento del numero delle persone in condizione di senza dimora morte in strada nel 2023, rispetto agli anni precedenti, parte dal concreto parlando con Danilo De Luise, responsabile dei servizi di San Marcellino, associazione genovese che unisce all’intervento sociale un serio lavoro di studio e formazione: “Anche quando le cause ‘ultime’ e specifiche dei singoli decessi possono essere patologie, da anni verifichiamo come la vita di strada impatti pesantemente sulla vita delle persone, che spesso muoiono prematuramente”.

Un’osservazione che trova conferma nel monitoraggio annuale della Federazione degli organismi per le persone senza dimora (fio.PSD); dove si legge che le persone senza dimora, in Italia, hanno un’aspettativa di vita inferiore di 30 anni rispetto al resto della popolazione. Il numero delle vittime di quella che viene definita una “strage invisibile” potrebbe essere sottostimato, in quanto raccoglie solo i casi noti ai servizi o usciti sui giornali locali, ma è comunque in crescita da quattro anni e arriva a 415 morti nel 2023 (+4% rispetto al 2022). Il drammatico epilogo della morte in strada accomuna traiettorie personali molto diverse tra loro, sulle quali pesano responsabilità che è utile individuare e distinguere.

“Non si muore di freddo o di caldo, si muore di strada”. Lo osservava Pedro Meca, frate e operatore sociale che con i “Compagnons de la Nuit” condivise la vita con le persone in condizione di senza dimora, lo rimarca oggi De Luise: “Non si riflette abbastanza su quanto sia pesante la vita all’aperto. Restare esposti a temperature o condizioni climatiche estreme, doversi arrangiare per fare i propri bisogni dove capita (è sempre più raro trovare bagni accessibili senza pagare o consumare), dover girare tra dormitori e mense, e non avere dove ripararsi e trovare un po’ di quiete durante il giorno se si sta male, non avere spazi di intimità, restare immersi nel rumore e nella sporcizia, nel caos e nel disordine di un’architettura urbana spesso deliberatamente ostile”.

Così, la morte per freddo o per malore è solo un sintomo, esito inesorabile di periodi più o meno lunghi passati in strada. “Focalizzarsi sulle ragioni ultime dei decessi (in ordine di prevalenza: malori, violenze, incidenti, annegamenti, suicidi, malattie, incendi, overdosi e ipotermia) per gli addetti ai lavori rischia di deresponsabilizzare e dividere tra gli opposti estremi dell’espressione di buoni sentimenti fuori tempo massimo o l’indifferenza di chi si è lasciato assuefare da anni di guerra ai poveri e colpevolizzazione delle persone più fragili per la loro stessa condizione in nome del decoro”.

A ribadire e allargare lo sguardo è Michele Ferraris, responsabile della comunicazione fio.PSD: “Servono investimenti strutturali e un cambiamento nell’approccio”. Malgrado una certa narrazione romantica e deresponsabilizzante a volte lo lasci intendere, “nessuno sceglie di vivere in strada. L’assenza di una casa andrebbe vista come un sintomo, le cui cause possono essere molto diverse. Per questo, le attività di supporto delle persone senza dimora andrebbero unite a interventi di prevenzione. Lo scivolamento verso una condizione di povertà estrema può essere intercettato attraverso elementi chiaramente individuabili”, manca la volontà (o la capacità) politica per farlo adeguatamente.

Pesa sulla situazione delle persone senza dimora anche il ridimensionamento di misure di sostegno al reddito. Danilo De Luise solleva dubbi sul nebuloso concetto di “occupabilità”, sottolineando l’importanza di un dialogo tra chi definisce questi criteri e chi lavora a stretto contatto con le persone vulnerabili: “Vorrei che chi pontifica contro misure di sostegno al reddito incontrasse gli operatori del nostro centro d’ascolto e si rendesse conto della realtà dell’umanità concreta con cui ci confrontiamo”, afferma. Racconta di un episodio recente, alteriamo dettagli che possano rendere riconoscibile il protagonista: “Nelle scorse settimane abbiamo assistito al tentativo di suicidio di un ospite. Questa persona la conosciamo bene, ha iniziato a stare peggio da quando aveva perso il reddito di cittadinanza che percepiva. Non voglio dire che sia una conseguenza diretta, parliamo di persone che spesso hanno grossi problemi e fragilità psichiche pregresse, con le quali si confrontano da anni. Ma è chiaro che, proprio per questo, ogni piccolo cambiamento e arretramento nel supporto sociale che si riceve, rappresenta un ulteriore strappo che può portare a gesti estremi chi già cammina sul filo del rasoio”. Nel 2023 sono stati accertati 24 suicidi tra le persone senza dimora, ai quali si potrebbero aggiungere molti decessi conseguenti a annegamenti o investimenti in circostanze da chiarire.

Gli operatori del settore sottolineano un’ulteriore distinzione da tenere presente, tra chi si trova a vivere in strada. Ci sono le “persone in condizione di senza dimora”, individui che hanno subito un progressivo deterioramento delle loro condizioni di vita, culminando in una perdita totale di risorse economiche ma anche delle proprie competenze sociali e relazionali. Su questa condizione esiste ampia letteratura e sono casi spesso aggravati da problemi di salute mentale o dipendenze. Poi c’è chi si trova in uno stato temporaneo di “assenza di casa”, privo di un tetto, ma non necessariamente afflitto da fragilità complesse. In particolare, le persone migranti si confrontano con sfide uniche, principalmente legate alle restrizioni imposte da normative come la Bossi-Fini e altri esiti deleteri delle leggi sull’immigrazione, che limitano la loro capacità di affittare un alloggio o di ottenere un impiego regolare. Gli operatori di San Marcellino evidenziano: “Queste persone possiedono la forza e la determinazione per integrarsi pienamente nella società, a patto di superare gli ostacoli legislativi e di ricevere opportunità adeguate. Al contrario, coloro che vivono una condizione di senza dimora affrontano una situazione ben più complessa”.

Negli ultimi tempi, tuttavia, la distinzione “storica” tra questi due profili sta diventando sempre più sfumata. La realtà degli ultimi anni dimostra come anche le persone migranti possano trovarsi intrappolate in una spirale di marginalizzazione, spesso a seguito di esasperanti odissee tra i meandri della burocrazia e nell’estenuante ping-pong di respingimenti tra paesi europei che ignora le loro necessità fondamentali. Questo vortice degradante ha condotto molti migranti verso la condizione di senza dimora a tutti gli effetti; trovare una casa dove dormire diventa solo l’ultimo di una lunga serie di problemi di difficile risoluzione. Un percorso di marginalizzazione reso chiaro da vicende come quella di Moussa Balde.

Michele Ferraris sintetizza le priorità della Federazione degli organismi per le persone senza dimora: “Occorre prevenire lo scivolamento verso condizioni di povertà estrema e supportare l’abitare per chi è già marginalizzato”. La politica europea dell’Housing first muove proprio dall’osservazione che oggi “non si muore di fame, si muore di strada”. In questo senso, togliere le persone dalla strada è la via più veloce per prevenire i decessi: “L’obiettivo è rimuovere le persone dalla strada, non solo per evitarne la morte, ma per garantire un supporto adeguato che consideri la loro fragilità, evitando soluzioni che le isolino in contesti privi dei servizi necessari”.

Alcune persone possono raggiungere l’autonomia completa, mentre altre, per vari motivi, potrebbero non aspirarvi o essere incapaci di sostenerla, prediligendo ambienti comunitari; è fondamentale affidare l’analisi e la gestione di questi percorsi a professionisti qualificati e adeguatamente formati. “Da parte delle istituzioni e dei servizi sociali non è possibile affidare la responsabilità unicamente al terzo settore o, nei casi più critici, al volontariato” conclude De Luise: “Per sviluppare politiche e interventi che siano efficaci e quindi in sintonia con le esigenze reali, non si può prescindere dall’analisi approfondita delle singole storie e del loro insieme, solo così si previene il rischio di calare dall’alto ‘soluzioni’ superficiali o demagogiche che, anziché risolverlo, alimentano il problema”.

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