Nessuna verità per l’ambasciatore italiano in Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, per il carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci, e per l’autista del Programma Alimentare Mondiale, Mustapha Milambo, uccisi il 22 febbraio 2021 in un’imboscata nell’est del Paese africano. La giudice per l’udienza preliminare di Roma, Marisa Mosetti, ha deciso per il non luogo a procedere per “difetto di giurisdizione” nei confronti del funzionario del Pam, Rocco Leone, accusato insieme al suo collega Mansour Rwagaza, ad oggi irreperibile, di aver falsificato i documenti di viaggio della missione nell’est del Paese, facendo sì che questa potesse andare avanti senza scorta armata e una protezione rafforzata. Al dipendente Onu è stata infatti riconosciuta l’immunità funzionale, ma la Procura ha già annunciato che farà ricorso in Cassazione.

La Farnesina dalla parte dell’Onu
Determinante nell’ultima udienza del 24 gennaio scorso è stata la memoria depositata dal direttore degli Affari Giuridici del Ministero degli Esteri. Come spiegato dal funzionario della Farnesina, esistono delle modalità con le quali le organizzazioni internazionali come il Pam devono comunicare agli Stati ospitanti i nomi dei propri dipendenti coperti da immunità nello svolgimento delle proprie funzioni. Questo non era stato fatto in Italia per quanto riguarda Leone e Rwagaza ed è su questo particolare che puntava la Procura di Roma per evitare che venisse riconosciuta l’immunità. Da parte sua, la Farnesina aveva però espresso il proprio parere favorevole all’immunità, sostenendo che queste comunicazioni hanno “natura dichiarativa e non costitutiva dell’immunità funzionale” e che sarebbe dovuta prevalere, dunque, la consuetudine internazionale del riconoscere l’immunità ai funzionari Onu.

Si è trattato solo dell’ultimo episodio di una vicenda che ha visto il governo italiano non solo assente, ma schierato sulle posizioni dell’Onu che fin dall’iscrizione dei suoi funzionari nel registro degli indagati ha iniziato a inviare lettere di protesta all’esecutivo di Roma per l’operato della Procura, ribadendo che i suoi dipendenti godevano dell’immunità. Da lì in poi è iniziato il silenzio del governo che non si è mai espresso sulla questione dell’immunità. Ha però deciso, mentre incontrava i familiari delle vittime rassicurandole sull’impegno nella ricerca della verità per l’uccisione di due rappresentanti dello Stato, di non costituirsi parte civile nel processo, al contrario di quanto fatto, invece, per il procedimento in Congo contro i sei presunti esecutori materiali dell’attacco sulla strada tra Goma e Rutshuru. Una scelta, questa, che ha generato dubbi anche tra i familiari di Attanasio: perché costituirsi parte civile in un processo contro sei civili accusati di omicidio e non in quello contro funzionari accusati di aver falsificato documenti di viaggio facendo sì che la sicurezza del convoglio sul quale viaggiava l’ambasciatore non venisse rafforzata? Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, si è sempre limitato a rispondere che ogni decisione sarebbe stata presa seguendo “l’interesse nazionale“. Che, evidentemente, non prevedeva la costituzione di parte civile contro dipendenti di organizzazioni, come il reparto food delle Nazioni Unite, che hanno la loro sede centrale proprio a Roma. Tanto che, alla fine, i funzionari della Farnesina, di fronte alla gup di Roma, hanno spiegato perché a loro parere dovesse essere riconosciuta l’immunità.

Verità sepolta? I dubbi mai chiariti
Salvo clamorosi ribaltoni in Cassazione o nuove prove che possano giustificare l’avvio di un nuovo procedimento, quello di Attanasio e Iacovacci rischia di diventare solo l’ultimo caso di italiani uccisi all’estero rimasti senza verità e giustizia. A dicembre si è riusciti a ottenere il rinvio a giudizio dei quattro agenti della National Security egiziana imputati per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni, ma a fronte di un primo risultato rimangono troppi i familiari senza risposte per l’uccisione dei loro cari: da quelli dell’osservatore Onu Mario Paciolla fino a quelli dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Nel caso Attanasio, se possibile, l’immobilismo di Roma stride ancora di più rispetto ai dossier citati: si tratta, infatti, di rappresentanti dello Stato morti nell’esercizio delle proprie funzioni. Vicenda che, come talvolta ricorda il padre dell’ambasciatore, Salvatore Attanasio, in altri tempi sarebbe stata fondata ragione per scatenare una guerra.

I dubbi su come si siano realmente svolti i fatti, secondo le testimonianze e le informazioni raccolte dalla Procura e da Ilfattoquotidiano.it, restano. Prima di tutto nel racconto dei sopravvissuti all’agguato: in diversi passaggi, le loro ricostruzioni non combaciano. Incongruenze si notano nella ricostruzione delle ore successive all’agguato di Rocco Leone. Il funzionario del Pam, salvatosi per essere inciampato o essersi buttato per terra, non ricorda, mentre veniva portato nella selva con gli altri prigionieri, nelle ore successive all’accaduto aveva prima raggiunto l’ospedale dove era stato portato il corpo in fin di vita di Attanasio e successivamente risultava irrintracciabile dai pm. La motivazione circolata nelle prime ore era che si trovasse ricoverato in ospedale in stato di shock, ma dalle intercettazioni del telefono personale della moglie emerge che l’uomo stava bene e non si trovava in ospedale. Altri elementi forniti direttamente alla Procura suggeriscono invece che l’uomo si è rifugiato all’interno del ristorante Mediterraneo di Goma insieme all’allora console onorario Gianni Giusti, oggi deceduto, e al proprietario del locale, Michele Macrì. È lo stesso luogo dove la sera prima si era tenuta una cena a cui l’ambasciatore Attanasio aveva invitato tutti gli italiani residenti nella zona. Resta il fatto che nessun testimone dell’agguato, secondo i video visionati anche da Ilfattoquotidiano.it ce ne erano molti, ha potuto raccontare cosa sia accaduto sulla Route Nationale 2, anche perché i Ros non sono mai riusciti a raggiungere il luogo dell’omicidio per motivi di sicurezza.

Dietro questa vicenda resta viva poi l’ipotesi del depistaggio. Secondo le testimonianze di fonti vicine al dossier, i risultati di una prima indagine svolta dalla magistratura militare congolese sono stati completamente insabbiati. Da questi emergeva, ad esempio, che i banditi si trovavano sul luogo dell’agguato già da tre giorni, durante i quali altri convogli di organizzazioni internazionali sono passati di lì senza alcun problema. Nel villaggio di Kibumba, quello più vicino al luogo dell’assalto, lo sapevano in molti, tanto che la popolazione locale si era rivolta ai guardiaparco che stavano lavorando a dei tralicci dell’alta tensione lì vicino prevedendo accadimenti che quel giorno non avrebbero consentito loro di svolgere il loro compito. Resta da capire perché il responsabile dell’intelligence di Kibumba, mai sentito dagli investigatori, non ne fosse al corrente. Non solo, i magistrati incaricati ipotizzavano il coinvolgimento di alti membri delle Forze Armate congolesi (Fardc) che sono stati convocati per essere sentiti. Tutto inutile, dato che il gruppo d’inchiesta è stato prontamente rimosso e sostituito da una commissione inviata da Kinshasa.

Non va dimenticato che dalle stesse indagini era emerso il possibile nascondiglio della mente del commando che ha assaltato il convoglio sul quale viaggiava l’ambasciatore, Amos Mutaka Kiduhaye detto Aspirant. Secondo i magistrati, colui che avrebbe potuto fornire informazioni su eventuali mandanti dell’agguato si nascondeva nel campo profughi di Chaka, in Uganda. Ma, anche lì, nessuno è mai andato a indagare.

Twitter: @simamafrica e @GianniRosini

Articolo Successivo

Gabriele Marchesi resta per ora ai domiciliari in Italia, la decisione della Corte di Milano per il coimputato di Ilaria Salis

next