Rocco Galasso non si ferma mai un attimo. La sua, come quella di tutti gli attori del calciomercato, è una vita vissuta in una dimensione accelerata. Sempre di corsa, tra una telefonata e un summit, un’intervista e un pranzo di lavoro. Del resto, non potrebbe essere altrimenti. Galasso parla latino meglio di Cicerone, ha mille passioni e ancor più incarichi. Oltre ad essere responsabile dell’area solidale del Monopoli, dal 2017 è vicepresidente di Adise, l’Associazione Italiana dei direttori sportivi, fondata nel 1976 e presieduta da Beppe Marotta. In questi giorni frenetici, naturalmente, è stato il padrone di casa all’Hotel Sheraton di Milano, sede del rush finale del calciomercato, organizzato proprio da Adise in collaborazione con Master Group Sport.

Qualche mese fa Paolo Maldini, intervistato da Repubblica, si lasciò andare a una riflessione sulle funzioni dell’area sportiva nel calcio moderno. “Chi pensa che il lavoro dell’area sportiva sia solamente quello di fare mercato sbaglia tutto”. Quella del direttore sportivo, del resto, è una figura che sta diventando sempre più universale. Lei è d’accordo con questa affermazione?
Molto. Da tempo, ormai, il direttore sportivo non è più quella figura che si occupa di individuare i giocatori e allestire la rosa, come era stato concepito agli inizi, con il celebre maxi corso del 1980. Oggi, invece, il DS deve necessariamente possedere anche capacità di tipo manageriale e gestionale, oltre ad esercitare una funzione di raccordo tra tutte le componenti dell’area sportiva. Rispetto al passato, insomma, è sicuramente una figura più eclettica.

Si sente molto parlare di sostenibilità. Ma cosa significa esattamente e, soprattutto, come la si raggiunge?
Si può ottenere solo operando con intelligenza e oculatezza, attraverso scelte equilibrate, ponderate e lungimiranti, compiute nel pieno rispetto dei bilanci, del mercato e della leale competizione sportiva.

La mancata proroga del Decreto Crescita, sancita dal governo al tramonto dello scorso anno, ha forse complicato i piani di molti direttori sportivi. Come può il nostro calcio assorbire questo colpo?
Abbiamo affrontato questo discorso proprio qui allo Sheraton insieme all’AIOC, l’Associazione degli Osservatori Calcistici Italiani. Io credo che questa decisione del governo potrebbe contribuire ad accendere di più i riflettori sui giovani italiani – e ce ne sarebbe un gran bisogno – incoraggiando in qualche modo le diverse società a lanciarli con maggior convinzione.

Allo Sheraton, in questi giorni, si sono susseguiti un po’ tutte le anime del grande gioco che è il calciomercato. Il fascino di questo evento è intatto, anche se adesso le operazioni vengono effettuate perlopiù in via telematica. Come ha impattato l’avvento della tecnologia?
Notevolmente. Io mi trovo in piena sintonia con il nostro presidente (di Adise, ndr), Beppe Marotta, quando saggiamente dice che “Prima gli ignoranti erano quelli che non sapevano né leggere né scrivere, nonostante potessero magari vantarsi dei trascorsi nel mondo del calcio, anche ad alto livello. Oggi, invece, sono coloro che non sanno utilizzare le nuove tecnologiche, oltre a padroneggiare le lingue straniere, inglese in primis”. La tecnologia, oltre ad essere indispensabile, facilita il compito del DS e lo rende anche più efficiente.

I capitali mediorientali stanno sconquassando il calcio europeo. Molti calciatori, tanti anche di spicco, si sono lasciati sedurre dalle sirene arabe. Cosa può fare il calcio italiano per contrastare questa minaccia, se così vogliamo chiamarla, proveniente da Oriente?
Sicuramente, considerate anche le contingenze del momento, non possiamo gareggiare con i mercati arabi sul piano economico. Dovremmo provare a intervenire sul sistema e cercare di renderlo più competitivo, quindi più appetibile anche all’estero, facendo leva sul senso di appartenenza dei giocatori locali.

Per concludere. Che consiglio si sentirebbe di dare a un giovane aspirante direttore sportivo?
Innanzitutto, gli consiglierei di non avere fretta, ma di percorrere tutte le tappe del cammino che ha come meta finale la dirigenza sportiva. Su questo faccio sempre riferimento al nostro presidente Marotta, una figura dirigenziale di primissimo piano a livello nazionale e internazionale, e per questo un modello sicuramente da seguire. La sua esperienza parte dal ruolo di magazziniere e arriva fino a quella di giovanissimo direttore, anche perché all’epoca era possibile forse una carriera più accelerata. Questo per dire che la gavetta è un valore importante. Non bisogna avere la smania di vestirsi di un ruolo importante, che richiede preparazione e competenze, ma anche una certa capacità operativa che si può acquisire solo svolgendo le mansioni più umili. Inoltre, poi, è fondamentale affiancarsi ad una figura di riferimento, dalla quale continuare ad apprendere nella pratica. Solamente in questo modo, a mio avviso, si può diventare una figura di garanzia.

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