Il programma politico del Partito Popolare Europeo, a quattro mesi dalle elezioni che ridisegneranno la Plenaria di Bruxelles, è ancora un foglio bianco. O quasi. La spaccatura interna alla più grande famiglia europea si è riproposta, in un “clima di sconforto” secondo chi vi ha partecipato, nel corso dell’assemblea politica del 29 e 30 gennaio. Sul tavolo una bozza preparata dal Wilfried Martens Centre for European Studies, il centro studi del Ppe. Tra gli europarlamentari e i delegati nazionali la consapevolezza che, come gli altri partiti europeisti, anche i Popolari registreranno un calo nei consensi alle urne in favore delle destre emergenti, da quelle più estreme di Identità e Democrazia a quelle conservatrici di Ecr che proprio in queste ore ha accolto l’ex ‘pecora nera’ del Ppe, Viktor Orban. L’obiettivo è quello di limitare l’emorragia di voti per rimanere la colonna portante delle politiche europee. Sulla strategia manca l’intesa, ma il tempo sta scadendo: a metà marzo si terrà il Congresso del partito a Bucarest e in quei giorni il programma politico verrà ufficializzato, così come il candidato di punta.

Toccherà al presidente Manfred Weber mediare e trovare il punto d’incontro tra chi vorrebbe uno spostamento del baricentro su posizioni più conservatrici e chi, invece, ritiene non sia saggio andare a giocare sullo stesso campo delle forze emergenti, dal Rassemblement National di Marine Le Pen alla tedesca Alternative für Deutschland, fino al Pis polacco, Fratelli d’Italia e, appunto, Fidesz. Il punto fermo (obbligato) al momento è solo quello dello Spitzenkandidat, il candidato di punta del partito: sarà ancora Ursula von der Leyen. Una scelta dovuta, per non sconfessare cinque anni alla guida della Commissione, ma che in molti dentro alla formazione reputano solo di facciata: l’idea che l’ex ministra tedesca punti alla carica di segretario generale della Nato è largamente diffusa nel partito. Così, dietro di lei incombe la figura del candidato ombra. Il solito Manfred Weber.

DEMOLIZIONE DEL GREEN DEAL – Un epilogo del genere comporterebbe, appunto, uno spostamento a destra del partito, visto che il tedesco è un esponente di spicco della Csu. E questo ha influito anche sulla stesura della prima bozza del documento programmatico del Ppe. Da quanto apprende Ilfattoquotidiano.it da fonti vicine al dossier, non è un caso che la grande discontinuità rispetto agli ultimi cinque anni emerga proprio sul Green Deal, il progetto principe dell’era von der Leyen. Il piano ambientalista europeo è stato rivisto e annacquato così tanto, dicono le fonti, che per la presidente uscente sarebbe impossibile da accettare. Non a caso, i tedeschi hanno manifestato il proprio dissenso nei confronti di un documento che sconfesserebbe totalmente il mandato della politica Cdu.

Il Ppe sul tema ambientale ha però un grosso problema da risolvere: gli obiettivi fissati da von der Leyen nel 2019 sono costati al partito le lamentele degli imprenditori (e finanziatori), alcuni dei quali hanno preferito spostarsi su posizioni ancora più conservatrici. Un duro colpo per formazioni come la Cdu-Csu, che deve gestire i malumori del cuore produttivo dell’Europa, la Baviera, per Forza Italia, che da sempre conta sul sostegno di una parte dell’imprenditoria italiana, senza dimenticare i Paesi dell’est come la Polonia, dove ancora produzione ed estrazione ruotano intorno al carbone. Ciò che ha provocato lo sconforto di eurodeputati e delegati è, non a caso, la mancanza di un vero e articolato riferimento a una politica industriale. Un punto che, in un partito come il Ppe, dovrebbe ricoprire un ruolo centrale.

GREEN DEAL E AGRICOLTURA – Alle proteste degli imprenditori, oggi, si aggiungono anche quelle degli agricoltori, come dimostrano le manifestazioni in mezza Europa e anche di fronte ai palazzi brussellesi. Nel Ppe c’è chi vorrebbe intercettare quel malcontento, anche sacrificando in parte il Green Deal di von der Leyen. Ma dall’ala più liberale della famiglia europea frenano: sconfessare le politiche degli ultimi cinque anni andando a lottare sul terreno di Ecr e Id rischia di portare a una doppia sconfitta, dicono. Altri, come il partito polacco di Donald Tusk, fresco vincitore alle ultime elezioni, vedrebbe di buon occhio invece un riposizionamento di questo tipo. Per due motivi: innanzitutto la Polonia è un Paese a forte vocazione agricola, dove quindi il malcontento può esplodere in maniera difficilmente controllabile, mentre politiche pro-agricoltori possono portare un’importante quota di voti nel paniere dell’ex presidente del Consiglio Ue; a questo si aggiunge il fatto che la coalizione di governo è sorretta anche dal partito Terza Via, formazione vicina alle posizioni degli agricoltori.

SOSTEGNO ALL’UCRAINA – Tralasciando le lamentele dei partiti del nord Europa per la “scarsa incisività” del testo in materia di diritti Lgbtqi+, una frattura che all’interno del partito era evidente anche nella legislatura in corso, proprio gli agricoltori si intrecciano con un altro tema irrisolto all’interno dei Popolari: il sostegno futuro all’Ucraina e ai suoi cittadini. La Polonia ha più volte sollevato il problema dell’enorme flusso di prodotti agricoli in arrivo dal Paese in guerra che rischiano di penalizzare seriamente il settore nazionale, con possibili ritorsioni da parte dei produttori Ue. Non a caso, nel tentativo di non interrompere gli aiuti a Kiev e, allo stesso tempo, non creare un fronte di protesta sul fianco Est, Bruxelles dovrebbe proporre il rinnovo delle misure commerciali a sostegno del Paese di Zelensky, tra cui la sospensione dei dazi all’import, delle quote e delle misure di difesa commerciale, introducendo però clausole di salvaguardia a tutela degli agricoltori dei Paesi limitrofi. Un equilibrio precario che si vive anche all’interno della famiglia Popolare.

La questione si intreccia, però, anche col tema immigrazione. A marzo 2025 scadono le misure di sostegno ai rifugiati ucraini in Europa. E qui sorge la domanda: rinnovare i loro permessi di soggiorno (e il conseguente sostegno) o rimpatriarli? Non una scelta semplice, che divide non a caso il partito. Da una parte c’è la volontà di continuare a dare aiuto al governo di Volodymyr Zelensky che, però, ha bisogno di forze fresche da mandare al fronte. E un buon bacino dal quale attingere è proprio quello di chi è riuscito a fuggire. Quindi: assecondare le volontà del presidente ucraino o garantire protezione ai rifugiati? Dall’altra parte c’è chi vede di buon occhio la presenza di operai ucraini nei propri Paesi: personale anche specializzato a un costo inferiore rispetto ai salari europei che fa comodo, appunto, agli imprenditori. Per questo vorrebbero rinnovare il sostegno.

Forte preoccupazione, in attesa delle elezioni Presidenziali negli Stati Uniti, è legata anche all’ipotesi di un ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. Se il tycoon dovesse rispettare le promesse fatte, ossia togliere sostegno incondizionato a Kiev, l’Europa si ritroverebbe da sola a gestire una guerra alle proprie porte e rifornimenti bellici che forse non è nemmeno in grado di garantire. Ribaltando il punto di vista, seguire Trump e scaricare l’Ucraina vorrebbe dire smentire due anni e mezzo di promesse a Zelensky e all’opinione pubblica.

Così, raccontano le fonti, il documento è stato sospeso e già “scarnificato“. La promessa di eurodeputati e delegati nazionali è quella di mettere insieme degli emendamenti, discuterli e arrivare a una stesura condivisa all’interno dei gruppi di lavoro. Il tutto, però, deve essere fatto in fretta: a metà marzo si terrà il Congresso e per quella data la linea comune deve essere definita. Una linea che tenga conto sia della ricandidatura di Ursula von der Leyen che dalla consapevolezza che il vero Spitzenkandidat, il candidato ombra, potrebbe invece essere il più conservatore Manfred Weber.

Twitter: @GianniRosini

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