Pillole in freestyle sui quintetti dell’All Star Game appena annunciati.

Il quintetto dell’Est
Giannis Antetokounmpo (Milwaukee Bucks). Un raffinato palleggiatore con le dimensioni di un centro e la velocità di piedi di una point-guard. Una combinazione letale, in grado di puntarti sul primo-passo e di schiacciarti in testa facendoti male nell’anima. Una superstar gentile. Con un passato difficile come il suo, non era scontato venir su così bene. Ha cifre da MVP (31,3 punti di media e 60,5% da campo), tranne che per le percentuali ai liberi (66,9%), un danno non indifferente visto la mole di gioco che produce. Il tiro da tre? Mai veramente pervenuto. Futuro Hall of Famer.

Jayson Tatum (Boston Celtics). Una fluidità tecnica da far invidia. Un realizzatore senza confini, capace di trovare il canestro in mille modi diversi. Ha fisico, mano dolce, abilità nell’uno contro uno. È una star di prima grandezza. Cosa manca? La pericolosità dal perimetro è altalenante e nelle serate storte gli toglie spazi per le penetrazioni. In più, non è al top nel creare per altri, anche se spesso produce assist spettacolari che sono più legati al talento che all’approccio. Bello da vedere, sta guidando Boston durante una stagione clamorosa. Però, prima o poi, dovrà vincere qualcosa.

Joel Embiid (Philadelphia 76ers). Un colosso. Evoluzione dei centri degli anni ’90? Probabilmente, gioca come avrebbe giocato Hakeem Olajuwon se avesse calcato i parquet in questa epoca. I 70 punti con cui ha smantellato San Antonio di recente (ammettiamo, non una roba impossibile…) sono un perfetto connubio di qualità tecniche e fisiche con pochi precedenti. Ha mostrato a Victor Wembanyama come deve giocare un centro dalla media distanza, infilandolo in palleggio arresto e tiro dal vertice alto della lunetta a piacimento. Poi, ha segnato pure valanghe di canestri da sotto con un paio di giocatori attaccati ai suoi bicipiti. Al momento, l’MVP pare tra lui e Jokic.

Tyrese Haliburton (Indiana Pacers). Trattasi di point-guard moderna con una visione di gioco alla Jason Kidd e un tiro da fuori (dalla tecnica poco ortodossa) che miete vittime di partita in partita (40%). Fondamentali puliti e cristallini, gioca sempre in controllo ed è in grado di cambiare velocità in palleggio anche a difesa schierata. È già una stella. Ha il potenziale per fare ancora di più. Ah, 12.6 assist di media. Roba da far impallidire perfino John Stockton (si fa per dire…).

Damian Lillard (Milwaukee Bucks). Appena arrivato nella “città di Happy Days” ha avuto bisogno di ambientarsi. Poi ha iniziato a inquadrare meglio il bersaglio. Intendiamoci, non è numericamente alla miglior stagione in carriera. Dall’arco deve iniziare a essere più preciso (34,7%) e non è che in difesa cambi le sorti di una squadra. Però, individualmente, stiamo parlando di un califfo. Solo la sua presenza, in coppia con Antetokounmpo, è in grado di far cambiare la postura in campo a qualsiasi squadra avversaria. Ovvio che se non mette la parola “anello” accanto al suo nome, le malelingue alzeranno prima o poi la voce in modo sempre più pressante.

Il quintetto dell’Ovest
LeBron James (LA Lakers). Poco da dire qui, se non che la stagione in chiaroscuro dei Lakers potrebbe togliergli un po’ di voglia. Negli anni, ha custodito il proprio corpo come se fosse la copia originale della Gioconda. Ecco perché a 39 anni accende ancora in modo (quasi) immutato la fantasia di tifosi e addetti ai lavori. Perché con un fisico integro, quel bagaglio tecnico che ha può avere (nonostante tutto) libero sfogo indipendentemente dall’età. Si crede voglia continuare a giocare finché non arriva in NBA anche suo figlio. Si inizia a sospettare che il figlio nel mirino sia in realtà il secondo genito (che sta ancora al liceo). Con Michael Jordan è il top di sempre.

Kevin Durant (Phoenix Suns). Tutte le volte che si arresta a due tempi da tre, da qualche parte in America inizia a sbocciare una rosa (American Beauty?). Macchina da canestri – con arsenale illimitato – tra le più letali mai viste su un campo. Esatto, al livello di Jordan, Iverson, “Iceman” Gervin e mettete pure voi il prossimo nome. Tecnicamente non si discute. Individualmente non si discute. Ma perché ha sempre voluto unirsi a grandi team, invece di guidarne al titolo uno suo? Nel suo bagaglio di (immense) qualità, forse manca il concetto di “leadership”? Phoenix sembra in una situazione da o la va o la spacca.

Nikola Jokic (Denver Nuggets). Un genio. No, no, non un giocatore intelligente. Proprio un genio. Di quelli che non ne nascono quasi mai. Inchiostro su di lui ne viene sprecato tanto ogni giorno, forse anche (da alcuni) in modo ridondante. Basta dire una cosa sola: vede linee e angoli di passaggio per i quali anche Magic Johnson (per scherzare…) dovrebbe virtualmente indossare degli occhiali da vista. Non sono tanto i punti (o le cifre) a impressionare (ma comunque impressionano…), quanto la sensibilità nei polpastrelli che gli permette di trovare l’effetto giusto anche quando è fuori equilibrio, con due uomini attaccati alle orecchie e una mano sugli occhi. Un genio. Stop.

Luka Doncic (Dallas Mavericks). Talento individuale infinito. Al livello qualitativo, ciò che di meglio si può trovare in giro oggi nella lega. Può segnare caterve di punti senza nemmeno scomporsi più di tanto. Può giocarsi un uno contro uno a ogni azione e segnare tutte le volte che vuole, senza peraltro necessariamente sentirsi in colpa per quei quattro ragazzi in campo che indossano la sua stessa maglia. Le cifre individuali sono impressionanti (oltre 33 punti, oltre 9 assist e oltre 8 rimbalzi di media…). Al capitolo vittorie di squadra? Umh…

Shai Gilgeous-Alexander (Oklahoma City Thunder). Immarcabile, perché non ti fa mai capire a che velocità vuole andare. Varia i ritmi in palleggio e con l’uomo addosso: parte forte, butta un’esca rallentando, la difesa abbocca e lui riaccelera in una frazione di secondo. È un serpente a sonagli dalla media distanza. Prima opzione offensiva di una squadra, Oklahoma City, che sta letteralmente volando.

That’s all Folks!

Alla prossima settimana.

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