Benjamin Netanyahu è sempre più solo. Lo è perché la condanna per l’ostinazione con la quale sta portando avanti i raid su Gaza si è estesa oltre i Paesi musulmani, fino in Europa. E a questo si aggiunge il rifiuto categorico a qualsiasi compromesso che possa portare alla creazione di uno Stato di Palestina che gli è valso la rottura con l’amministrazione Biden. Ora, però, a scaricarlo è anche parte del governo di unità nazionale e del gabinetto di guerra: col ministro della Difesa, Yoav Gallant, i rapporti sono ai minimi storici, mentre la frangia che fa capo a Benny Gantz chiede nuove elezioni, forte dei consensi emersi dagli ultimi sondaggi. Non solo, il Jerusalem Post riporta anche di una rottura interna al Likud, il suo partito, proprio sul sostegno al premier. In questa situazione, la speranza di Bibi di portare avanti il conflitto ancora per “molti mesi”, magari sperando in un ritorno del grande alleato Trump alla Casa Bianca, si sta trasformando in un’utopia.

TERREMOTO NEL LIKUD – A sollevare la questione della spaccatura interna al Likud sulla figura del primo ministro è il Jerusalem Post. Da quanto si legge, nemmeno nel suo partito, che guida da 30 anni e col quale è andato al governo ben sei volte, c’è più un sostegno incondizionato nei confronti di un leader incapace di gestire l’opposizione interna, sia da sinistra che da destra, la pressione degli alleati e il peso delle responsabilità per l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso. Se a questo si aggiungono i guai giudiziari che ancora pendono sulla testa del primo ministro, è evidente ormai per tutti che la sua esperienza politica stia tramontando. Così, anche gli alleati lo scaricano perché in pochi ritengono che la sua promessa di “sradicare per sempre Hamas” possa essere rispettata. Nelle stanze del Likud si parla già di chi dovrà raccogliere l’eredità di Netanyahu alla guida del partito. I nomi sono noti: in testa c’è sicuramente il ministro della Difesa Gallant, col quale il premier è ormai a un punto di rottura insanabile, ma si parla anche del ministro degli Esteri, Israel Katz, di quello dell’Economia, Nir Barkat, e dell’attuale presidente della Commissione Affari costituzionali, Yuli Edelstein.

SONDAGGI DISASTROSI – Non è la prima volta che Netanyahu si trova in una situazione politica delicata, ma il largo consenso pubblico è ciò che ha contribuito a non scalfire mai la sua leadership nel corso di questi 30 anni. Oggi, però, non è più così e anche gli amici di una volta si affrettano a scendere dal carro del premier. Secondo i rilevamenti del quotidiano Maariv, Netanyahu gode oggi di un 31% di consensi, quella che è sempre stata, indicativamente, la sua base, ma ha subito un netto sorpasso da Benny Gantz, addirittura al 50%, con anche il leader di estrema destra, Ben Gvir, in crescita. Così, ad oggi, il partito di Gantz avrebbe una maggioranza di 39 seggi alla Knesset, mentre il Likud ne otterrebbe 16. Potere ebraico di Ben Gvir salirebbe invece a 9 seggi. Il leader dell’opposizione Yair Lapid vedrebbe confermati i 13 seggi del suo partito. Nella divisione per blocchi, l’attuale opposizione avrebbe nel complesso 66 seggi alla Knesset contro i 44 della corrente maggioranza.

LE PRESSIONI DI GANTZ – Sfruttando l’attuale situazione, il partito di Gantz ha iniziato a puntellare il governo. A nemmeno 24 ore dalle dichiarazioni con le quali Netanyahu ha respinto l’ipotesi di trattative per la nascita di uno Stato di Palestina e annunciato ancora “molti mesi di guerra”, il ministro del gabinetto di guerra Gadi Eisenkot, legato a Benny Gantz, lo ha smentito in un’intervista televisiva: “È necessario, entro qualche mese, riportare l’elettore israeliano alle urne e indire elezioni per rinnovare la fiducia perché in questo momento non c’è fiducia”. Tradotto: non sarà Netanyahu a decidere quanto durerà il conflitto a Gaza.

Detto questo, non sarà semplice per Gantz prendere le distanze dall’operazione militare nella Striscia, sempre che abbia intenzione di farlo: il politico e generale israeliano ha accettato, a differenza dell’altro leader dell’opposizione, Yair Lapid, di entrare nel governo di unità nazionale per condurre la guerra a Hamas. È quindi responsabile tanto quanto Netanyahu di ciò che è accaduto in questi mesi, anche se non condivide con lui l’onta del fallimento militare e di intelligence che ha portato all’attacco dei miliziani islamisti contro i kibbutz israeliani. Ed è proprio su questo che puntano i suoi compagni di partito: “Come democrazia, lo Stato di Israele deve chiedersi dopo un evento così grave ‘come possiamo continuare con una leadership che ci ha miseramente deluso?‘”, continua Eisenkot che, a differenza di Netanyahu, sottolinea l’importanza di pensare al futuro di Gaza.

Uno degli obiettivi che il governo non può ignorare è certamente la liberazione dei 136 ostaggi ancora nelle mani del partito armato palestinese. E mentre Netanyahu rifiuta di tornare al tavolo per discutere una tregua in cambio di altri rilasci, Eisenkot indica proprio quella come la via da seguire. E lo fa invocando un termine fino a oggi bandito all’interno dell’esecutivo: cessate il fuoco. “Gli ostaggi torneranno vivi solo se ci sarà un accordo legato a una significativa pausa nei combattimenti“, ha detto.

PRESSIONE DAGLI ALLEATI – Come se non bastasse la crescente sfiducia interna a Israele, il governo deve fare i conti anche con i messaggi che arrivano dai Paesi europei. Secondo fonti di Bruxelles, i 27 Stati membri sono concordi nel sostenere la soluzione dei due Stati, respinta categoricamente da Netanyahu, e lunedì durante i colloqui con il ministro degli Esteri Katz, che prenderà parte al Consiglio Affari Esteri, il messaggio sarà “chiaramente consegnato”. La fonte non si aspetta comunque “alcuna dichiarazione congiunta” su una tregua immediata a causa delle resistenze della Germania.

A prendere la parola è stato ad esempio il primo ministro olandese, Mark Rutte, che ha esortato Netanyahu a “ridurre drasticamente il livello di violenza nelle sue operazioni” a Gaza e a “consentire l’ingresso di più aiuti umanitari e in tempi più brevi”. Più netta la posizione del capo della diplomazia europea, l’Alto rappresentante per la Politica Estera, Josep Borrell, che ha esortato la “comunità internazionale” a “imporre dall’esterno” la creazione di uno Stato palestinese, nonostante il rifiuto del premier israeliano. “Gli attori sono troppo in conflitto per poter arrivare autonomamente a un accordo”, ha detto. Parole che mostrano una possibile svolta nei rapporti del premier con la comunità internazionale: Netanyahu, oggi, è un leader accerchiato.

Twitter: @GianniRosini

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