Lo scorso 11 gennaio una coalizione guidata dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, che nell’ambito della missione Prosperity Guardian ha coinvolto parzialmente anche Danimarca, Australia, Singapore, Bahrein, Canada, Germania, Paesi Bassi, Corea del Sud e Nuova Zelanda, ha lanciato un centinaio di missili contro una sessantina di obiettivi militari in 16 differenti aree dello Yemen, tutte sotto il controllo di Ansarullah, il movimento armato fondato dai ribelli Houthi sostenuti dall’Iran e responsabili di una trentina di attacchi con missili e droni su navi commerciali in transito nel Mar Rosso.

Una serie di strikes decisi senza passare dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che nelle ultime ore hanno determinato anche l’apertura di un giallo a proposito della – per ora mancata – partecipazione dell’Italia. L’agenzia Reuters, all’indomani dei bombardamenti, aveva infatti riferito del rifiuto di Roma di unirsi alla coalizione. Un rifiuto smentito da una nota di Palazzo Chigi qualche ora dopo, nella quale si precisava come l’Italia fosse stata soltanto avvertita dell’iniziativa, e seguito dalla pubblicazione di un dispaccio diplomatico proveniente da Londra, risalente a capodanno, in cui il Regno Unito sollecitava gli alleati europei ad “unirsi attivamente in un’azione maggiormente incisiva” contro gli Houthi.

L’Italia al momento temporeggia, anche se nel Mar Rosso è già presente dallo scorso mese di ottobre con due fregate della Marina militare, la Virginio Fasan e la Federico Martinengo (quest’ultima dotata di missili terra-aria Aster, in grado di intercettare droni e missili cruise degli Houthi, ndr), impegnate nell’ambito della missione europea Atalanta pensata per combattere i pirati somali, ma dal 7 ottobre circa ricalibratasi per far fronte alla necessità di proteggere la flotta mercantile.

Sono numeri importanti quelli riguardanti i rischi commerciali che incombono sull’Italia: se dal Mar Rosso passa circa il 12% del commercio marittimo mondiale, questa percentuale raggiunge quasi il 40% – 155 miliardi di dollari di import-export – nel caso del Belpaese, con i porti di Taranto, Gioia Tauro, Genova e Brindisi che potrebbero subire le conseguenze più gravi del blocco o della minore operatività di uno dei principali ‘colli di bottiglia’ mondiali, cioè lo stretto di Bab al Mandeb che collega in sostanza l’Europa all’Asia orientale.

Il più spettacolare degli attacchi dei ribelli Houthi sulle navi commerciali in transito per lo stretto di Bab el Mandeb era avvenuto lo scorso 19 novembre, quando i ribelli al largo delle coste di Jeddah erano atterrati in elicottero sul ponte della nave cargo Galaxy Leader, in viaggio dal porto turco di Korfez a quello indiano di Pipavav, seppur priva di carico (trasporta normalmente automobili, ndr). L’azione, rivendicata come una misura per “fermare il massacro a Gaza“, aveva fatto seguito all’annuncio di una settimana prima da parte degli Houthi sulla loro emittente Al Masirah di voler “prendere di mira navi israeliane di passaggio nello Stretto, anche quelle prive di bandiera”.

La Galaxy – dall’equipaggio misto, battente bandiera delle Bahamas e noleggiata dalla giapponese Nippon Yusen dal proprietario Abraham Ungar, imprenditore israeliano – è stata poi sequestrata e ancorata al largo del porto di Al Salif e trasformata in una attrazione turistica per gli yemeniti. L’evoluzione di questo scenario aveva spinto una serie di compagnie di spedizioni marittime, come la Cosco, la Hapag-LLoyd e la Maersk a deviare le proprie rotte dal Mar Rosso verso il Capo di Buona Speranza, con i tempi e i costi di trasporto di un container dal mar mediterraneo alla Cina che sono quadruplicati in un paio di settimane, senza contare un aumento di circa il 3% il costo delle assicurazioni dei cargo.

Tuttavia, a stimolare in ultima istanza i raid americani e britannici – che hanno così ufficialmente aperto un nuovo fronte del conflitto esploso il 7 ottobre – erano stati gli attacchi di Ansarullah del 9 gennaio, con l’intercettazione quasi simultanea di diciotto droni, due missili cruise e un missile balistico anti-nave. Nessuno dei raid yemeniti a oggi è riuscito ad affondare alcuna nave, sebbene una manciata abbiano riportato danni consistenti, con conseguenze economiche per una cinquantina di Paesi, tra cui appunto la stessa Italia. Questo, tuttavia, sembra solo l’inizio di un’evoluzione piena di incognite e dalle potenziali ripercussioni globali.

È impossibile inquadrare quanto sta accadendo nel Mar Rosso soltanto alla luce della mera attivazione di “meccanismi di solidarietà” degli Houthi nei confronti dei movimenti armati palestinesi, che ricadono sotto l’ombrello dell’Asse della Resistenza a guida iraniana: i ribelli yemeniti, infatti, con queste azioni hanno voluto lanciare anzitutto un messaggio volto al loro pieno riconoscimento politico e militare, sul piano interno e subregionale, che perseguono con particolare decisione ormai da un decennio, anche al di fuori della partnership con Teheran. Un processo di rafforzamento graduale e autolegittimazione che parte appunto da lontano, sin dalla loro fondazione nel 1992, e certamente a partire dall’offensiva militare lanciata contro di loro da una coalizione a guida saudita nel 2015.

In questi anni di combattimenti, che hanno finito per frustrare le capacità saudite e rinsaldare le posizioni degli Houthi – i quali controllano gran parte del Paese, tra cui la capitale Sana’a -, questi ultimi hanno raffinato la loro preparazione militare, anche marittima, e soprattutto sviluppato la capacità di decentralizzare e nascondere i propri armamenti (come le rampe di lancio dei missili, facili da spostare) e le proprie basi, resistendo ad intense campagne di bombardamenti aerei.

Questo è il motivo principale per cui i recenti raid americani e britannici – finalizzati più alla protezione del commercio globale che non alla sola solidarietà verso l’alleato israeliano – potrebbero non aver intaccato nella sostanza i loro programmi di sviluppo di droni e missili, ma solo stimolato la preparazione di nuove rappresaglie – magari anche sui Paesi del Golfo, come già accaduto, o su altre città dello Yemen al di fuori del loro controllo, interrompendo il traballante cessate il fuoco attualmente in vigore – possibile preludio a uno spillover incontrollabile. Cosa attendersi dall’immediato futuro?

Una conseguenza dei raid americani e britannici è già stata la mobilitazione immediata di centinaia di migliaia – alcune fonti parlano di numeri superiori al milione – di yemeniti, scesi in piazza nelle scorse ore in protesta contro l’intervento armato, sull’onda di un contestuale accresciuto sentimento di ostilità nei confronti di Washington, anche per via di quanto sta accadendo a Gaza. L’agenzia di stampa locale Sabah ha poi riferito di un’altra, contemporanea mobilitazione, cioè quella che ha visto la consegna di circa 20mila diplomi militari ad altrettante giovani reclute yemenite, pronte a diventare operativi in Ansarullah.

Le operazioni militari in luoghi martoriati come Gaza, come l’Afghanistan, come la Somalia o come lo Yemen – tra i Paesi con i più bassi indici di sviluppo umano al mondo, una mortalità infantile al 60%, un tasso di povertà superiore al 60% e una grave crisi alimentare e sanitaria in corso da anni – come si è già visto portano con sé ormai il tipico effetto di cementificare il sostegno interno (e in certa misura anche regionale, ndr) – in questo caso ai ribelli di Ansarullah – che altrimenti sarebbe più precario, vista la difficoltà di questi ultimi di assicurare i servizi basilari alla popolazione e pagare gli stipendi dei funzionari.

Nel breve termine ci si attendono quindi delle risposte degli Houthi, e di conseguenza ulteriori strikes occidentali, nel quadro di un generale aumento della militarizzazione dell’area ad opera della Combined Task Force 153 a guida americana e con la partecipazione dell’Egitto, a sua volta operante nell’ambito della citata missione Prosperity Guardian, accanto a un rinnovo delle sanzioni sugli armamenti Houthi.

Sul piano diplomatico, si spera nei laterali tentativi di mediazione dell’Arabia Saudita stessa – che nei mesi scorsi aveva iniziato un timido dialogo con gli Houthi sull’onda di un parziale riavvicinamento a Teheran mediato da Pechino – e del solito Oman, sempre molto attivo in queste direzioni. Al momento, tuttavia, questi sforzi appaiono quantomeno prematuri. Gli Houthi hanno definitivamente inaugurato il loro ingresso nel conflitto, pienamente consci delle conseguenze di un prolungato danneggiamento o interruzione di buona parte dei traffici marittimi mondiali, e sono ufficialmente predisposti a vincolarlo alla fine dei bombardamenti su Gaza, in piena sintonia con il resto dell’Asse della Resistenza.

D’altro canto, è al momento improbabile che l’escalation nel Mar Rosso coinvolga interventi localizzati degli altri suoi partner, tanto l’Iran quanto Hezbollah che tramite il suo segretario generale Hassan Nasrallah ieri ha annunciato ulteriori rappresaglie dell’Asse per i bombardamenti sullo Yemen. Rappresaglie che, come nel caso dell’omicidio di Saleh Al Arouri, potrebbero arrivare “diluite” nel tempo e nello spazio.

La strategia di matrice asimmetrica dell’Asse stesso, tanto in Palestina quanto in Yemen, sembra al momento consistere nel mantenimento di una serie di (contenuti) fronti aperti. E in un certo senso non comunicanti, in modo da evitare conflitti di maggiore portata e concentrazione. Tenendo tuttavia impegnate – e potenzialmente divise, come si è visto al momento con il caso della mancata partecipazione italiana, nonché con la condanna ad esempio turca dei raid britannico-americani – le forze occidentali ed in parziale scacco il commercio mondiale.

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