Quando l’ultimo sicario del Siviglia ha interrotto la breve agonia dei calci di rigore, lo scorso 31 maggio, nel settore è calato il gelo. È finita, abbiamo perso un’altra finale. Fra amici ci siamo guardati con gli occhi lucidi, ci siamo abbracciati, siamo rimasti in silenzio. Gli sguardi nel vuoto, ognuno in direzione diversa. Il mio ha messo a fuoco l’immagine di una ragazzina che risaliva dalle prime file della gradinata. Uno spettacolo purtroppo indimenticabile. Avrà avuto 13 anni al massimo, singhiozzava. Non smetteva di piangere. Saliva i gradini lentamente e non è arrivata in cima: era come se per gli spasmi dovesse riprendere fiato, poi si è fermata proprio accanto a me. Ho provato un senso di superstizione e imbarazzo: mi aveva puntato? Era un’esperienza reale o una metafora del mio dolore al petto? Perché si è seduta proprio qui, mentre lottavo anch’io per tenere insieme i pezzi? Non mi guardava, aveva gli occhi chiusi e pieni di lacrime. Si è girata verso il prato e ha singhiozzato ancora più forte.
In mezzo al campo la squadra era riunita in cerchio e in mezzo al cerchio c’era l’allenatore. Non sapevamo cosa stesse dicendo Josè Mourinho, ma si poteva intuire o sperare dai gesti. “Io resto qui”. In mezzo alle macerie emotive, tecniche, economiche di quella sconfitta ingiusta, non ha preso la strada più logica, più semplice, più coerente con la sua carriera: andarsene via. Mourinho è sempre stato il primo a capire quando fosse il momento di levare le tende: arrivava in un club, attingeva fino all’ultimo centesimo possibile dal portafogli del proprietario, spremeva i suoi giocatori fino all’ultima goccia di sudore, fino all’ultimo scatto nevrotico, vinceva e poi andava via. A Roma è arrivato un uomo diverso. Invecchiato, addolcito, empatico. È rimasto, anche se non c’erano più soldi da investire o giocatori da spremere. Oggi l’hanno cacciato via, con tre righe di comunicato hanno chiuso un pezzo delle nostre storie.

Non ho la minima pretesa di interpretare il pensiero dei tifosi della Roma, forse solo di alcuni con cui ho condiviso i gradoni dei settori ospiti di mezza Italia e di un pezzo d’Europa. Meno che mai di scrivere qualcosa di sensato sul calcio: l’analisi razionale applicata al gioco è preziosa, ma a volte ne servirebbe meno. Sono convinto che non spieghi nulla della storia di Mourinho a Roma. Un allenatore vecchio, dicono. Un allenatore in declino. Mentre il calcio evolveva, negli ultimi 20 anni, è rimasto identico a se stesso. La Roma giocava malissimo, è vero. Lui trovava sempre scuse per distogliere l’attenzione dalle sue colpe. Hanno tutti ragione, ma sfugge qualcosa di importante. Con José Mourinho allenatore della Roma ho visto alcune delle partite esteticamente più brutte della mia vita da amante del calcio. Con José Mourinho allenatore della Roma ho vissuto molti dei giorni più belli della mia vita da tifoso. Abbiamo avuto uno stadio incredibile, un blocco compatto, una storia d’amore senza rivendicazioni. Abbiamo scoperto che una tifoseria litigiosa, per certi versi insopportabile, innamorata del proprio pensiero e delle proprie opinioni al di sopra di ogni altro bene comune, fosse capace – anche solo per un giorno, un mese, un paio di stagioni – di restare unita, di ricordarsi che nella vita non esiste nulla di più importante della condivisione di un sentimento.

Che viaggio formidabile è stato. Sempre insieme, spalla a spalla. La sera che Roma-Bodo sembrava Roma-Parma: 70mila persone e migliaia di bandiere. Le lacrime di Marco alla fine dell’ultimo, infinito minuto di recupero di Roma-Leicester. Il traghetto per Tirana. Quella coppa nuova, strana, bellissima. La corsa nei corridoi di Stansted per non perdere il volo per Leverkusen, il botto fragoroso di Antonio nell’ostello di Colonia. Il treno per Vienna, l’auto per Budapest, l’abbraccio a Giampaolo nel settore ospiti. Persino quell’eterno, terrificante scalo a Lamezia Terme, la mattina dopo quello scherzo infame di Taylor. L’insensato campeggio al lago di Garda prima di Verona Roma. La corsa sul Sempione ghiacciato per prendere il treno per Ginevra. Quel pomeriggio di agosto che Gianluca mi ha fatto camminare 30 chilometri nel centro di Tolosa, per un’amichevole estiva. Le palle di neve all’autogrill sulla strada per Salisburgo, il giorno che Andrea è diventato Ezio. Davvero: si chiamava Andrea. Per motivi difficili da spiegare a una persona normale, al culmine del delirio alcolico di una trasferta austriaca, dopo la ventesima volta che i suoi amici lo chiamavano starnazzando “Ezioooo”, qualche fila più in alto, lui si è girato. Grande esultanza collettiva. Da quel giorno lo chiamano Ezio anche i fratelli e i genitori.

Dalle curve la partita si vede peggio, del gioco si capisce poco. Forse per sopportare – anzi amare – 100 minuti di una squadra mediocre allenata da Josè Mourinho è necessaria la giusta distanza dal campo e moltissimo alcool in corpo. In televisione, da sobri, può essere uno spettacolo che non intrattiene, talvolta mortifica. Ma davvero il calcio dev’essere principalmente quella roba che si vede e si vende in tv? Che bello è stato averti dalla nostra parte, mister. Siamo adulti ormai, almeno all’anagrafe. Lo sappiamo che di sentimento in genere ce n’è poco, nelle traiettorie delle carriere di professionisti milionari: ma vedere Mourinho che piange in macchina mentre lascia Trigoria è un’esperienza che a noi ingenui spacca il cuore. Sarà stato un manipolatore, un affabulatore, un paraculo, ma alla fine di questa storia non si metterà in discussione che sia stato soprattutto un autentico romanista. Credo lo sappiano anche quelli che l’hanno licenziato: per riempire questo gigantesco cratere sentimentale ne hanno scelto un altro, l’unico capace di generare un flusso di emozioni altrettanto intenso. Forse Daniele De Rossi non è ancora un allenatore. Forse è l’inizio di un altro viaggio.

Articolo Precedente

José Mourinho, Roma e i tifosi della Roma: storia di una fascinazione collettiva in tre atti

next
Articolo Successivo

Dramma in casa Hertha Berlino: morto a soli 43 anni Kay Bernstein, l’ultras diventato presidente

next