“Nessuno che abbia cura dell’interesse nazionale avrebbe mai sottoscritto quel tipo di accordo. Nessuno che abbia conoscenze delle dinamiche industriali avrebbe accettato mai quelle condizioni”. Così il ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso nella sua informativa al Senato sull’ex Ilva, ricordando che “Di fronte alla minaccia di abbandonare il sito e in assenza di alternative, nel marzo 2020 il governo Conte 2, ministro Patuanelli, avvia una nuova trattativa con gli investitori franco-indiani da cui nascerà Acciaierie d’Italia con l’ingresso di Invitalia al 38% e con la sigla di patti parasociali fortemente sbilanciati a favore del soggetto privato. Patti che definire leonini è un eufemismo”.

Stando alla ricostruzione di Urso, la governance sarebbe “di fatto rimasta nelle mani del socio privato” e all’amministratore delegato venne previsto “il voto decisivo su 7 materie”. Non solo: “In caso di salita in maggioranza, Invitalia non avrebbe potuto esprimere un ad di propria fiducia”. E ancora: “Invitalia non avrebbe potuto cedere quote a terzi anche se in maggioranza, solo il 9% a un socio finanziario non operativo sull’acciaio e con diritto di prelazione in capo a ArcerlorMittal”.

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