Ogni leggenda che si rispetti ha bisogno del proprio mito fondativo. Si tratta quasi sempre di un episodio di violenza, di un avvenimento eroico in cui il protagonista riesce a ribellarsi a un destino tanto ingiusto quanto ineluttabile. Fino a cambiare il corso della Storia. Fino a creare un immaginario collettivo. È stato così per ogni comunità. Ma è stato così soprattutto per ogni tribù del pallone. Dunque non è poi particolarmente strano che a cambiare una volta per tutte la storia del calcio tedesco sia stato uno schiaffo. È il 1958 e a Monaco di Baviera si sta giocando la finale di un torneo Under 14. Da una parte c’è il Monaco 1860, la squadra più importante della città. Dall’altra l’SC Monaco 1906, una piccola polisportiva locale con tante idee e pochi quattrini. Il problema è che portare avanti un vivaio è un gioco costoso. Troppo. I vertici del club sono stati chiari: dopo la finale si smobiliterà. Meglio che i tesserati si trovino un’altra squadra. E pure alla svelta. Fra di loro c’è anche un ragazzino di 13 anni.

Si chiama Franz Beckenbauer e gioca come centrocampista. Suo padre Franz Senior è un’impiegato postale. Sua madre Antonie è una casalinga. Vivono insieme alla nonna nel sobborgo operaio di Obergiesing, in una casa piuttosto spartana. Due camere e un salotto con una stufa in mezzo. Funziona anche da cucina. E quando fa particolarmente freddo i Beckenbauer si chiudono tutti lì dentro. Una delle stanze ha un buco sul pavimento. Sopra il legno consumato hanno applicato una spessa moquette. Ma se non si presta attenzione c’è sempre il rischio di finire al piano di sotto. Il venerdì sera Franz e suo fratello Walter possono lavarsi in una tinozza con l’acqua calda. E solo quando hanno finito riescono a ottenere il permesso di sedersi sul divano. Franz Senior è l’unico a essere dispensato. Lui può accomodarsi sul sofà tutti i giorni, ma soltanto dopo essere tornato dal lavoro. L’iniziazione di Franz al pallone avviene su un campo alopecico davanti a casa. È lì che trascorre i suoi pomeriggi insieme agli altri bambini del quartiere. Inseguono una palla fatta di stracci o di vecchi giornali, giocando a qualcosa che è una via di mezzo fra una partita e una battaglia. Si tratta di un ibrido tanto singolare quanto funzionale.

Il ragazzo impara a controllare la sfera su una superficie irregolare, apprende come evitare i calci e le pedate altrui. Il primo ad accorgersi di quel talento fuori dal comune è Franz Neudecker, l’allenatore delle giovanili del Monaco 1906. “Era un uomo molto fine – ha raccontato Walter Beckenbauer al sito del Bayern Monaco – tornò dalla guerra con una gamba sola, ma continuò a giocare a calcio. Ed era più veloce con le stampelle di chi aveva due gambe”. È lui ad aprire a Franz le porte del club. Almeno fino a quel pomeriggio del 1958. Tutto è già deciso da tempo. Beckenbauer è un tifoso del Monaco 1860 e dopo quella finale si unirà finalmente a club in maglia blu. Sembra un lieto fine già scritto. Solo che durante il match succede qualcosa di imprevisto. I Leoni sono a corto di uomini. Così Gerhard König, che di solito gioca in porta con risultati incoraggianti, viene schierato a centrocampo. E Beckenbauer lo fa letteralmente ammattire. Gerhard non ne può più. Si sente frustrato e ridicolizzato. Tanto che a un certo punto decide di entrare duramente sull’avversario. I due iniziano a discutere sempre più animatamente. Fino a quando König non colpisce Beckenbauer con uno schiaffo in pieno volto. È in quel momento che Franz pronuncia il suo giuramento. Non sarebbe mai andato al Monaco 1860. Per nessun motivo al mondo.

L’accordo diventa carta straccia. König assume le sembianze di uno strumento del destino. Non diventerà mai un professionista. Perché poco dopo il Bayern Monaco si fa sotto. La trattativa si chiude in fretta. Ed è quanto di meglio possa accadere al calcio tedesco. Franz cresce nel settore giovanile di un club che sta cambiando pelle. Nel 1962 i Rossi vengono acquistati da Wilhelm Neudecker, un imprenditore edile che decide di investire nel club. E anche parecchio. Quando il club si trova nel purgatorio della seconda divisione, l’immobiliarista ha un’intuizione. Convoca Willi O. Hoffmann, il tesoriere del Bayern che in seguito diventerà anche presidente del club, e gli ordina di negoziare il contratto con Zlatko Cajkovski. I due (anzi, i tre, visto che l’allenatore jugoslavo si porta dietro anche la moglie) si incontrano al primo piano dell’hotel Stachus, in centro. Si accordano sul salario. Si accordano per un palazzetto a Sendling. Si accordano per un’auto aziendale. Poi però il tecnico chiede che siano inseriti anche dei bonus: per la promozione, per la vittoria della coppa nazionale, per lo scudetto. Sembra un’assurdità, invece è una richiesta incredibilmente lucida. Alla fine della prima stagione Cajkovski, che tutti chiamano ‘Cik’, mozzicone, per via della sua statura minuta che supera a stento il metro e sessantaquattro, decide di far esordire in prima squadra Beckenbauer. Il ragazzo ha appena 18 anni ma la sua classe è già abbacinante. Così l’anno successivo il mister decide di promuoverlo titolare insieme ad altri due ragazzi: l’attaccante Gerd Müller e il portiere Sepp Meier.

Il Bayern centra la promozione. È la pietra angolare su cui verranno costruiti i successi futuri del club, che negli anni successivi aprirà un ciclo che lo porterà a vincere tutto. Quattro campionati, una Coppa delle Coppe, quattro Coppe di Germania. Ma soprattutto tre Coppe dei Campioni consecutive (nel 1974, nel 1975 e nel 1976) e una Intercontinentale. In mezzo al campo Beckenbauer è tante cose e tutte insieme. Qualcuno lo paragona a un architetto. Altri a un direttore d’orchestra. Testa alta e schiena dritta, Franz è in grado di far muovere tutta la squadra intorno a sé con la forza di uno sguardo. Per questo non si limita a dominare, lui rivoluziona il modo stesso di stare in capo, di interpretare un ruolo. In Germania giurano che sia riuscito addirittura ad anticipare l’idea di calcio totale elevata a sistema dall’Ajax e dall’Olanda di Michels e Cruyff. E in uno sport dove solo gli attaccanti sembrano poter sconfinare nella letteratura, Beckenbauer ci è riuscito arretrando sulla linea dei difensori. Merito anche di amore precoce. Quando è ancora una ragazzino, Franz guarda le partite dell’Inter in televisione. E resta stregato dalle scorribande offensive di Giacinto Facchetti. Ma se quel difensore spinge sulle fasce, perché lui non può farlo centralmente? È un’idea prometeica, qualcosa di talmente grande che rischia di sconfinare nella hybris e, come tale, di venire punita dalle divinità del calcio.

Invece diventa l’atto di nascita di un qualcosa mai visto prima. Le movenze di Beckenbauer sono eteree, leggere, vellutate. I suoi interventi sono così precisi che per essere efficaci non devono essere necessariamente duri. La cifra del gioco di Franz è il “momento”, la capacità di scegliere il tempo giusto per soffiare il pallone all’avversario o per toccarlo quel tanto che basta per metterlo fuori causa. Ma è con la sfera fra i piedi che il ragazzo trascende la storia per entrare nel mito. Beckenbauer prende palla e si stacca dalla retroguardia, si avventura in territori inesplorati e inesplorabili per i suoi compagni di reparto, verticalizza per le punte. E lo fa senza mai guardare il pallone, con gli occhi dritti a scrutare i mondi del possibile che si aprono davanti a lui, come non avesse neanche bisogno di conoscere la posizione della sfera. Ma è con la Nazionale che Beckenbauer diventa iconico. Il ct della Germania Ovest Helmut Schön gli affida le chiavi del centrocampo della Mannschaft. È così nel 1966, nel Mondiale inglese, quando i tedeschi arrivano fino alla finale contro i padroni di casa. Solo che battere i Tre Leoni a Wembley sarebbe un’impresa talmente straordinaria da sembrare quasi volgare. Così, dopo il 2-2 dei tempi regolamentari, è la doppietta di Geoff Hurst con tanto di gol fantasma a indirizzare la Coppa verso la squadra della Regina.

Ma è quattro anni più tardi che Beckenbauer entra una volta per tutte nell’immaginario collettivo. La semifinale dei Mondiali messicani mette una contro l’altra l’Italia e la Germania Ovest. In palio c’è il ruolo di sparring partner nella finalissima contro il Brasile di Pelé. Allo Stadio Azteca di Città del Messico Beckenbauer si trova davanti il suo idolo Facchetti. Ma è solo un capriccio della storia. Quello che succede in quel pomeriggio ha poco a che fare con il calcio. Diventa patrimonio condiviso, poema omerico. L’Italia è in vantaggio per 1-0 con gol di Boninsegna. Al minuto numero 65 Pierluigi Cera interviene su Beckenbauer. E cadendo a terra il capitano tedesco si lussa una spalla. Il dolore è straziante, la mobilità ridotta all’osso. Solo che Franz proprio non se la sente di uscire. Così si fa fasciare il braccio destro intorno al petto e continua a giocare. Come se niente fosse. Come se la sofferenza non esistesse. Due minuti dopo il novantesimo la Germania riacciuffa l’Italia. È l’inizio di un supplementare così emozionante da meritarsi una targa a imperitura memoria. Gli azzurri vincono 4-3 in quella che viene soprannominata la Partita del Secolo. Beckenbauer non ha perso. Ha solo mancato la vittoria. Ed è una sottigliezza che fa molta differenza. Un anno più tardi il Bayern Monaco gioca in Austria. Durante una visita all’Hofburg, che in passato era stata la residenza degli imperatori d’Asburgo, Franz si trattiene qualche secondo a fissare il busto dell’imperatore Francesco Giuseppe. Un fotografo racchiude quell’immagine in uno scatto. Poi la rivista Kicker lo pubblica a corredo di un articolo particolare. C’è scritto: “Due imperatori si incontrano all’Hofburg”. E da allora Beckenbauer diventerà per tutti il Kaiser.

A partire dagli Europei del 1972 Helmut Schön decide di arretrare Beckenbauer sulla linea dei difensori. È una scelta che lascia perplesso il ct azzurro Valcareggi. La reputa troppo disinvolta, troppo pericolosa. La storia però non è d’accordo con l’allenatore azzurro. La Germania Ovest vince il titolo battendo l’Unione Sovietica per 3-0. Poi, due anni più tardi, allo Stadio Olimpico di Monaco va in scena una partita che ha a che fare più con la poesia che con la prosa. Il mondo si aspetta un successo mondiale dell’Olanda di Cruyff. Perché alla rivoluzione del calcio totale manca solo l’investitura divina, il successo planetario. Le cose vanno molto diversamente. Beckenbauer afferma ancora una volta un principio basilare. Ossia che l’arte di spegnere il genio delle punte avversarie può essere nobile tanto quanto quella di segnare un gol decisivo. Dopo due minuti il rigore di Neeskens ammutolisce l’Olympiastadion. Poi però le reti di Breitner e Muller regalano la vittoria ai tedeschi. Franz smette di essere un calciatore per diventare una leggenda vivente. Da difensore riesce a vincere addirittura due Palloni d’Oro, uno nel 1972 e uno quattro anni più tardi. Ma il suo rapporto col successo si manifesterà di nuovo sotto un’altra forma nel 1990. È l’anno delle notti magiche. Kaiser Franz è l’allenatore della Germania Ovest. Mentre la sua squadra avanza nel torneo qualcuno a Milano fa sparire la sua Mercedes. Poco male, lo sponsor gliene manda un’altra. Immediatamente. È l’unica nota stonata in un mese perfetto. Perché la Germania batte in finale l’Argentina di Maradona. Una leggenda che fagocita un’altra leggenda. Fino a scrivere una storia che non può essere racchiusa nello steccato di una vita. E se Beckenbauer si è spento domenica sera a 78 anni, quell’immagine di un ragazzo con il braccio fasciato intorno al petto si è guadagnata l’immortalità.

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