Prima l’assassinio di Saleh al Arouri, leader di Hamas, ucciso lo scorso martedì da uno strike di un drone israeliano nel sud di Beirut, capitale del Libano. Poi l’attentato nei pressi della tomba di Qassem Soleimani a Kerman, in Iran, nel quale sono morte oltre 100 persone. Tre giorni prima l’affondamento da parte della Marina americana di alcuni battelli appartenenti ai ribelli Houthi (uccidendone una decina) al largo delle coste dello Yemen, ed altri tre giorni prima il raid israeliano in Siria, nel quale era rimasto ucciso il comandante dei pasdaran iraniani in Siria, Rida al Moussawi. Un lungo e pesante antipasto, quindi, quello che il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha dovuto digerire nell’ultima settimana prima di organizzare il suo atteso discorso di ieri, il terzo dal 7 ottobre, proprio nel giorno del quarto anniversario della morte di Soleimani, e certamente uno dei più lunghi – quasi due ore – portati a termine nell’ultimo decennio dal leader libanese.

Almeno venti minuti dedicati a rendere omaggio ai “martiri” sopracitati, per poi non dire granché sulla natura e sulla dimensione della risposta che Hezbollah vorrà dare a questi omicidi, trattati come un unico, organico moto di ostilità da parte di Israele e degli Stati Uniti (che Nasrallah ancora una volta ha definito “i veri responsabili del massacro a Gaza”, biasimando poi l’immobilismo dell’intera comunità internazionale) verso “l’Asse della resistenza”. In proposito, Nasrallah ha voluto nuovamente sottolineare non solo l’orizzontalità della leadership di quest’ultima – in contrasto con l’idea che le diverse fazioni seguano gli ordini di Teheran – ma anche “il più grande successo di Soleimani”, cioè l’aver messo in piedi un efficace sistema di comunicazione interno all’Asse, e aver contribuito a rendere ognuno di questi movimenti – Hezbollah, Jihad islamico, Hamas, Ansarullah in Yemen e le milizie di mobilitazione popolare in Iraq – del tutto “autosufficiente”, indipendente, “non in condizioni di prendere ordini da superiori, come fanno altri movimenti della regione con certi regimi”, e mosso da proprie, specifiche motivazioni che afferiscono al piano interno (quindi i movimenti palestinesi sulla base di quanto accade in Palestina, quelli libanesi sulla base di quel che accade in Libano, ecc), più che ad un “fronte internazionale”.
Nasrallah ha poi elencato ben “diciassette risultati”, raggiunti dall’Asse sin dal 7 ottobre. I più concreti – o i meno vaghi – sembrano essere l’aver intralciato il percorso di normalizzazione tra Israele e Paesi del Golfo, l’aver contribuito a “rovinare l’immagine di Israele di fronte alla comunità internazionale, nonché quella della sua invincibilità”, l’aver “impedito quella che Israele prevedeva come una rapida vittoria, riducendosi invece poi ad assassinare vigliaccamente a Beirut i leader che non riusciva a prendere a Gaza”, ed infine l’aver posto nuovamente una “minaccia all’esistenza stessa dell’entità occupante”. Rispetto a quest’ultimo punto, Nasrallah ha citato alcuni dati, come quello che vorrebbe “circa 300mila israeliani finiti in questi anni in terapia a causa delle ripercussioni della guerra”, ed in particolare di quest’ultima, e rivolgendosi ai suoi ascoltatori ha sottolineato non solo le “divisioni interne” agli israeliani, che ne minerebbero l’unità, ma anche quella che Nasrallah vede come maggioritaria e crescente la indisponibilità di tanti cittadini di Israele con doppio passaporto a rimanere nel Paese, in assenza della solida percezione di un senso di sicurezza, violato platealmente lo scorso 7 ottobre.
Ai libanesi, tuttavia, Nasrallah ha mandato i messaggi più decisi e forse anche più inquietanti, affermando di aver partecipato alle ostilità con Israele nel sud del Libano “per impedire un attacco a sorpresa israeliano”, e mettendoli in guardia dal confidare nella comunità internazionale per la loro protezione, visto il “fallimento della stessa nel proteggere i gazawi”, e visto che gli eventi dell’ultimo mese avrebbero dimostrato come “solo la forza, le armi, la fermezza, il coraggio, la volontà sono in grado di fornire protezione”. Ha quindi concluso ribadendo l’intenzione di voler pianificare una risposta mirata per l’omicidio di Al Arouri (come d’altronde aveva già avvertito lo scorso novembre), che tuttavia escluda una guerra su larga scala, opzione praticabile (“nessun limite”) solo nel caso in cui “Israele decida di attaccarci in modo massiccio”, cioè in sostanza una affermazione di ulteriore prudenza, o forse di equilibrismo, che vorrebbe scongiurare una escalation regionale.
Nella serata di martedì, dopo l’uccisione di Saleh al-Arouri, il governo libanese si era messo immediatamente in contatto con Hezbollah per evitare possibili reazioni incontrollate. Il ministro degli Esteri ad interim Abdallah Bou Habib aveva quindi riferito alla Bbc che il suo governo stava parlando con Hezbollah per “convincerli a non reagire da soli”. “Dialoghiamo con loro a questo riguardo”, aveva aggiunto Bou Habib, spiegando che “nei prossimi giorni sarà chiaro se Hezbollah risponderà oppure no. Siamo molto preoccupati, i libanesi non vogliono essere trascinati in una nuova guerra, ed anche Hezbollah non vuole essere trascinato in una guerra regionale”. Bou Habib ha riassunto abbastanza bene l’umore del Paese, anche se le sue parole erano arrivate prima dell’attentato in Iran, ed ovviamente prima del discorso di Nasrallah. Secondo alcuni osservatori, l’omicidio di Al Arouri non determinerà una escalation decisiva ma piuttosto, verosimilmente, un aumento della profondità in territorio israeliano degli strikes di Hezbollah, che tuttavia, se particolarmente dannosi (ad esempio se colpissero grandi città), potrebbero spingere Israele ad una reazione più decisa.
Trita Parsi, politologo iraniano di nazionalità svedese, considera l’instabilità dello scenario attuale una responsabilità degli Stati Uniti che, oltre ad aver fornito ulteriori armamenti a Tel aviv, si sono mostrati incapaci di imporre un cessate il fuoco a Gaza, imposizione che avrebbe invece prevenuto i diversi episodi precedentemente citati tra Libano, Siria e Yemen. Ci sono tuttavia altre considerazioni da fare sull’omicidio di Al Arouri, e sulle conseguenze che può avere, sia sulle capacità di Hamas che sulla regione. Nel corso degli anni Israele ha più volte ucciso leader di Hamas, a cominciare dal celebre Sheikh Ahmad Yassin, passando per personalità politiche e personalità militari delle brigate Izzedine al Qassam. Dopo ognuno di questi omicidi, Hamas è cresciuta anziché indebolirsi, probabilmente perché la sua stessa genesi ed esistenza dipende in ultima istanza dalla popolarità di una ideologia, che a sua volta dipende dalle condizioni in cui vivono i palestinesi, soprattutto a Gaza. Lo stesso si può dire in parte per Hezbollah, che ha visto Israele uccidere tanti tra i suoi famosi militari, come Imad Mughniyeh e Mustafa Badreddine, o anche Abbas Al Moussawi, il predecessore di Nasrallah.
Secondo il parere fornito al Fatto quotidiano da parte di una fonte riservata vicina ad Hezbollah, l’uccisione di Al Arouri “serviva a Netanyahu per vendere al suo pubblico una qualche forma di vittoria” (viste le difficoltà a trovare i leader di Hamas a Gaza), senza porsi il problema di una possibile escalation, anzi forse ricercandola, se è vero che lo stato di guerra rende più complicato un avvicendamento nell’esecutivo israeliano. Inoltre, sarebbe un messaggio agli Stati uniti, che 24 ore prima dell’assassinio di Al Arouri avevano annunciato il ritorno in porto della portaerei a propulsione nucleare USS Ford, che era stata spostata nei pressi delle coste israeliane all’indomani del 7 ottobre. Un modo per chiedere a Biden un ripensamento, in vista di una escalation regionale che sembra sempre più ricercata dal leader israeliano?
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