Tania è un’operaia. Ha lavorato per 28 anni come carrellista alla Lear di Grugliasco, nel torinese. Qui si producevano i sedili per le auto del gruppo ex Fiat, oggi Stellantis. 71mila sedili all’anno fino al 2016, oggi soltanto settemila. E così 310 operai oggi rischiano di perdere il posto di lavoro. “Viviamo in un limbo, non vediamo il futuro” racconta al Fatto.it l’operaia che da un mese e mezzo presidia i cancelli dello stabilimento insieme ai suoi colleghi.

Grazie alle trattative, sono riusciti ad avere un anno in più di cassa integrazione straordinaria per il 2024. Ma non è facile vivere con la cassa integrazione. “Innanzitutto vuol dire sopravvivere con mille euro al mese – spiega un altro operaio, Mimmo, che è entrato in fabbrica nel 1991 – ma quello che ci devasta è l’incertezza sul futuro”. Mancano le politiche industriali. “Il governo insieme a Stellantis ha annunciato un milione di veicoli per questo paese – riflette Toni Inserra, sindacalista della Fiom Cgil – ma siamo ancora nella fase degli annunci. Di concreto oltre alle dichiarazioni non c’è nulla”. E nel frattempo il tempo scorre.

Che cosa succederà quando finirà la cassa? “Io, come tanti altri colleghi, ho più di cinquant’anni – aggiunge Mimmo. quando sentiamo parlare di ricollocazione, mi viene da dire dove ci ricollocano? Le cose vanno male non solo da noi, ma anche nelle altre fabbriche del torinese”.

Basta fare un giro per le statali che corrono lungo la periferia dell’ex capitale dell’auto italiana per averne conferma. I capannoni vuoti sono sempre di più. Una crisi che arriva da lontano. Secondo le stime della Fiom Cgil, tra il 2008 e il 2020, soltanto nel comparto dell’auto, nel torinese si sono persi 32mila posti di lavoro. Ma tutti i settori sono in difficoltà. In questo momento a Torino ci sono un migliaio di persone che rischiano di perdere il lavoro. Tra questi ci sono gli operai della Te Connectivity, a Collegno. Producono mini compressori per elettrodomestici ma a novembre sono stati annunciati 220 esuberi. Il motivo? “Vogliono spostare la produzione in Cina e Stati Uniti – spiega Giorgia Perrone della Fiom Cgil – l’azienda non è in crisi, ma si tratta di una becera delocalizzazione”. Per chi come Rosanna lavora qui dal 1995 è stata “una doccia fredda perché dicevano che andava tutto bene mentre ci stavano portando via il lavoro”.

E tra gli operai serpeggia il malcontento nei confronti del governo. “Fino ad ora hanno parlato di made in Italy e piena occupazione – conclude Tania, l’operaia della Lear – ma parlano di un mondo che non esiste. Vorremmo meno parole e che venissero qui per ascoltarci. Fino ad ora non è venuto nessuno”.

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