Ergastolo per il padre Shabbar Abbas e la madre Nazia Shaheen ancora latitante. 14 anni per lo zio Danish Hasnain, assolti i due cugini, Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz, per i quali è stata disposta l’immediata liberazione. È la sentenza di primo grado pronunciata dalla Corte d’assise di Reggio Emilia per il femminicidio di Saman Abbas, la 18enne di Novellara che è stata uccisa dopo aver rifiutato un matrimonio forzato e dopo essersi ribellata alle imposizioni della famiglia. Per gli imputati non è stata riconosciuta la premeditazione. Il padre ha accolto in silenzio la sentenza, mentre in mattinata aveva rilasciato un’ora e mezzo di dichiarazioni spontanee durante le quali ha negato ogni accusa e ha dato del bugiardo al figlio testimone. Una versione dei fatti respinta dalla sentenza.

Presenti in aula, non solo giornalisti e avvocati, ma anche attiviste e rappresentanti delle associazioni di donne che si sono costituite parte civile. “Non si puo dire che giustizia è stata fatta”, ha commentato Tiziana Dal Pra, fondatrice di Trame di terre, “nel senso che Saman è morta e non ci sarà mai giustizia. Quello che rimane è un’altra donna uccisa per l’onore al di là di tutte le giustificazioni portate dal padre che ha tentato anche l’arma della commozione e dell’empatia. Ma non si può essere empatici alla disumanità”. “Mi auguro”, ha detto pensando al processo degli ultimi mesi, “che l’interesse politico cambi strada, capisca che abbiamo un problema e un nervo esposto, in Regione e in Italia. Perché nonostante l’impegno delle ativiste e dei centri antiviolenza non basta se non si capisce che bisogna intervenire, formare e rendere visibile l’invisibile. Bisogna rendere visibili queste donne”. “Perché”, ha chiuso, “non è inevitabile la morte di queste ragazze”, “è evitabile se si cambia prospettiva. È un femminicidio d’onore e come tale va guardato e combattuto con tutte le sue forze”. L’avvocata di Trama di terre Monica Miserocchi ha poi sottolineato l’importanza del risarcimento riconosciuto per le associazioni: “E’ stato accolto nella sua totalità. Vuol dire per tutte le associazioni di donne un riconoscimento al lavoro e al nostro stare qua. Noi non siamo qui per la condanna ma per il danno conseguente a quel fatto“. E l’avvocata dell’associazione NonDaSola Giovanna Fava ha aggiunto: “Le associazioni non partecipano per i soldi ma per essere vicini alla vittima e perche non ci siano piu reati di questo genere”. Per Maria Teresa Manente e Rossella Benedetti di Differenza Donna, si tratta di “una sentenza che si auspica contribuisca a modificare una cultura giudiziaria che troppo spesso minimizza la violenza maschile contro le donne”.

La necessità di un migliore impegno sul territorio è stata ribadita anche dalla sindaca di Novellara Elena Carletti: “La responsabilità genitoriale emerge pienamente ed è un segnale importante. A noi il compito di continuare un percorso per maturare sempre piu competenze per salvare queste ragazze dal loro destino”. Infine, l’avvocata del fratello testimone Valeria Miari, ha rivendicato “una vittoria del ragazzo”: “Il padre intercettato gli dava del pazzo”, “è stato deriso e canzonato”. Per questo oggi “lui ha vinto”.

La sentenza – La decisione dei giudici è arrivata dopo circa quattro ore e mezzo di Camera di consiglio. Ad essere cadute sono le aggravanti, premeditazione e motivi abietti, con l’eccezione di quella del legame familiare contestata ai genitori. Shabbar Abbas e Nazia Shaheen sono stati condannati per il reato di omicidio, ma assolti dalla soppressione di cadavere. Lo zio ha avuto una pena di 14 anni: è stato condannato per omicidio senza aggravanti e per soppressione di cadavere. Gli sono state concesse le attenuanti generiche ed è stato dunque ammesso al rito abbreviato (che aveva chiesto), con la riduzione di un terzo della pena. A pesare è stata la sua collaborazione nel far ritrovare il cadavere della ragazza. Tutti gli imputati sono stati assolti perché il fatto non sussiste dall’accusa di sequestro di persona. I due cugini sono stati assolti da tutti i reati per non aver commesso il fatto. La Corte ha poi riconosciuto il risarcimento di 25mila euro per ciascuna delle associazioni di donne (Non da sola, Trame di Terra, Udi, Differenza donna); di 10mila euro per Confederazione islamica italiana, centro islamico culturale d’Italia, Ucoii; di 30mila euro all’Unione comuni bassa reggiana: di 50mila per il Comune di Novellara. Il risarcimento è stato invece negato sia al fratello minore che al fidanzato di Saman Abbas.

Le parole del padre – Prima che i giudici si ritirassero in Camera di consiglio, il padre della ragazza aveva rilasciato dichiarazioni spontanee per un’ora e quaranta minuti. Un’ora e quaranta durante i quali ha negato tutte le accuse. Una lunga serie di “non è vero”, pronunciati in italiano davanti ai giudici per tentare di smontare la ricostruzione dell’accusa. Shabbar Abbas, estradato in Italia a settembre scorso, era fuggito in Pakistan subito dopo la morte della figlia. E fino a oggi, mai si era pronunciato. E soprattutto, come sostenuto dal procuratore capo Gaetano Paci durante la requisitoria, mai “ha espresso un gesto di pietà” nei confronti di Saman. Né lui, né alcuno dei familiari imputati. Oggi, parlando, ha accusato tutti di dire “falsità“, facendosi sentire con la voce rotta. “Non è vero che sono persona ricca, non è vero che sono una persona mafiosa. Non è vero che ho ammazzato una persona qua, una in Pakistan. Non è vero che sono andato a casa di Saqib (il fidanzato di Saman, ndr) a minacciare. Anche questo è falso, come quelli che dicono ‘ha ammazzato la figlia ed è scappato via’”. Shabbar Abbas ha sostenuto di volersi “liberare di tanti mesi di peso”. Il padre è arrivato e negare quanto testimoniato da operatrici e servizi sociali sulla condizione della figlia: “Non è vero che stava sempre chiusa”, ha detto. E ha poi accusato il figlio minore: “Ha detto che lo picchiavo. Signori giudici, nella mia vita non ho mai picchiato nessuno”. E ha cercato di sminuire il giovane: “La sua lingua ha parlato, il suo cuore non ha parlato. E’ un ragazzo così”.

Shabbar ha poi accusato anche Saman di “dire bugie”. E si è presentato come un genitore che “mai pensa male per i figli”: “Sempre le volevo bene, sempre ho lavorato in campagna, sotto le serre, mai sono andato a rubare”. Saman Abbas è stata uccisa dopo aver rifiutato il matrimonio forzato deciso dalla sua famiglia. Ma Shabbar ha negato anche questo: “Non era un matrimonio combinato. Lei era contenta”, ha sostenuto. Ma al tempo stesso ha confermato la sua disapprovazione per il fidanzato che Saman si era scelta: “Quello tra Saman e Saqib non era amore, noi diciamo che non era una bella cosa. Tutti noi parenti eravamo arrabbiati“.

Proprio per tutelare la ragazza erano intervenuti i servizi sociali e le forze dell’ordine e la ragazza era stata allontanata una prima volta: “Io non sapevo perché mia figlia veniva portata via da loro”, ha sostenuto oggi Shabbar Abbas. “Quando andavo dai carabinieri, mi dicevano ‘aspetti fuori. Vai a casa’. Pensavo che fosse perché ero straniero, pachistano e che a loro non fregava niente”. Quindi ha accusato gli stessi servizi: “Signori giudici, questi servizi sociali non pensano ai minorenni, non li trattano bene. Questi escono, fumano. E’ un disastro. Rovinano la vita dei bambini”. E ha chiuso la sua arringa con toni quasi teatrali: “Mai nella vita mia ho pensato di uccidere mia figlia. Era mio cuore, mio sangue, ho portato qua il mio cuore e il mio sangue. Non ammazzo figli, non sono un animale. Neanche da pensare”. Eppure, lo stesso uomo, intercettato a giugno 2021 mentre parla con un parente in Italia, disse: “L’ho uccisa io, l’ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore”. Oggi ha detto di non avere alcuna idea su cui potrebbe aver amazzato la figlia: “Vorrei capire anche io chi l’ha ammazzata, chi è venuto a prenderla quella sera”. Saman è stata uccisa nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio, ma Shabbar Abbas sositene di aver ricevuto un messaggio da lei il primo maggio in cui le diceva che “stava bene”. Messaggio che non è mai stato trovato. Quindi si è limitato a dire che la ragazza quella sera sarebbe andata via, senza che né lui né la moglie sapessero con chi.

La testimonianza chiave – Fondamentale, per delineare la dinamica del femminicidio durante le scorse udienze, è stata la testimonianza resa spontaneamente in aula dal fratello della vittima, Ali Heider che ha raccontato di aver sentito il padre in casa pronunciare la parola “scavare”, invitando poi i cugini e lo zio di Saman a “passare dietro le telecamere”, preoccupandosi poi che questa stessa premura la adottasse il figlio, costretto a restare in casa per non essere ripreso. Secondo l’accusa, è dall’uscio della porta, infatti, che Heider avrebbe assistito a una dei passaggi centrali del delitto. Davanti alla presidente della Corte Cristina Beretti, ha sostenuto che lo zio ha afferrato per il collo la sorella per portarla dietro alla serra, insieme ai cugini. Versione contestata dalla difesa degli imputati, secondo cui l’ora buia in cui avvenne il fatto e la scarsa illuminazione avrebbero reso impossibile riconoscere i volti dei protagonisti.

Una battuta d’arresto, nelle ultime fasi del processo, era arrivata a causa della dichiarazione di inutilizzabilità delle dichiarazioni del giovane pachistano, ascoltato all’epoca dei fatti ancora minorenne senza essere iscritto nel registro degli indagati (anche a sua garanzia). E’ stato sempre il fratello di Saman a ricostruire in aula gli ultimi istanti di vita della 18enne, dalla lite in casa per le chat con il fidanzato scoperte dal padre al cambio di abiti in bagno. E il procuratore capo Paci, durante la requisitoria, ha delineato i tratti di una famiglia dalla struttura simile a quella di una “ndrina calabrese”. Da quella morsa Saman Abbas, con il suo rifiuto per le nozze forzate e non solo, ha cercato di liberarsi. E per questo è stata uccisa.

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