A quasi due anni dal suo inizio, la guerra in Ucraina è ormai divisibile in due conflitti così diversi – dal punto di vista operativo – da sembrare due guerre distinte, combattute da due eserciti evoluti – o involuti – in modo tale da essere quasi irriconoscibili da un anno all’altro. La “prima guerra” fu caratterizzata da avanzate rapide e ritirate repentine da entrambe le parti, oltre che da alcune delle battaglie urbane più sanguinose dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’elastico degli attacchi lampo e delle ritirate tattiche spostò enormi territori in tre tranche: la prima di 70mila chilometri quadrati a favore di Mosca (per intendersi: quanto Piemonte, Lombardia e Emilia-Romagna messe insieme), poi a primavera 22mila e in autunno 18mila a favore di Kiev. Per fare un paragone, la catastrofica ritirata di Caporetto ci costò meno di 10mila chilometri quadrati.

Ma quanto correvano i russi all’inizio? Il 27 febbraio 2022, tre giorni dopo l’inizio dell’aggressione, una colonna russa proveniente dalla Bielorussia di 15 carri armati, 25 veicoli corazzati e 15 veicoli Ural-4320 della 37esima brigata di fucilieri giunse a Makariv, nel tentativo di accerchiare Kiev: avevano percorso quasi 150 chilometri in tre giorni, una distanza notevole per mezzi così lenti, su terreni fangosi o coperti di neve. Una controffensiva delle forze ucraine tenne i due eserciti bloccati in quella cittadina per quasi un mese: le forze del Cremlino non avrebbero più dato prova di tanta rapidità nei mesi successivi.

Mai più così a occidente da allora Più a sud, di chilometri ne avevano percorsi quasi il doppio i soldati russi che il 2 marzo arrivarono con noncuranza attraverso i campi del sud dell’Ucraina nei pressi di una semisconosciuta cittadina agricola, Voznesensk. Erano partiti dalla Crimea nemmeno una settimana prima e in quel momento costituivano l’avanguardia di una manovra di accerchiamento degli oblast di Odessa e Mykolaiv. Non si aspettavano una battaglia: quel giorno il loro obiettivo era di trovare un punto per attraversare agevolmente il Bug orientale, un largo fiume di quelle parti. Mentre il mondo osservava le donne di Kiev preparare le bombe molotov e la colonna di tank russi diretti verso la capitale, le vecchie signore per giorni avevano riempito sacchi di sabbia, gli uomini avevano raccolto fucili da caccia e munizioni e il sindaco, appena 32 anni, aveva organizzato la difesa e contattato i comandi militari. Non pensate che civili e uomini in divisa abbiano fatto le cose alla buona, men che meno alla disperata: fecero saltare in aria un ponte sul fiume della città, ostacolando l’avanzata russa e presero tempo in attesa delle truppe di Kiev. La battaglia, cruentissima, si esaurì in poche settimane, non in mesi o anni.

Il genio strategico di Kiev A ben vedere, in quelle tre settimane fra il 24 febbraio e il 2 aprile Kiev si limitò ad impedire ai russi di raggiungere obiettivi strategicamente fondamentali: l’aeroporto Antonov, le città di Chernihiv, Kharkiv e Sumy e lo snodo cruciale di Mykolaiv. In nemmeno un mese Putin, che già aveva Crimea e Donbass, da 43mila km quadrati passò a controllare 115mila dei 603mila chilometri quadrati del territorio ucraino, vale a dire dal sette al diciannove per cento del Paese. Per fare un paragone, le armate della Germania hitleriana impiegarono più o meno lo stesso tempo per sottomettere quasi la medesima superficie tra Belgio e Paesi Bassi nel maggio 1940. Ma i tedeschi avevano occupato un territorio compatto e gestibile con un minimo sforzo logistico: i soldati russi erano dispersi su duemila chilometri di fronte e sembravano andare a casaccio sulla mappa geografica dell’Ucraina. Quelle tre settimane erano servite a mettere in trazione come elastici troppo tesi le armate di Putin: il generale Valery Zaluzhny, capo delle forze armate ucraine, da ammiratore della storia militare russa qual è aveva indossati i panni di Mikhail Kutuzov e non aveva tentato di difendersi a prezzo di farsi distruggere l’esercito, come invece fecero i francesi e i britannici nel 1940. Anzi, da cultore di Annibale, aveva fatto credere al nemico in attacco di essere in ordinata ritirata, mentre invece stava aspettando solo il momento in cui neppure un miracolo avrebbe permesso ai rifornimenti e alle ambulanze di soccorrere le truppe russe. Alla fine, gli elastici si spezzarono tra marzo e aprile in tutti i luoghi più lontani dal territorio russo: l’intero Nord del Paese e l’area di Mykolaiv. Lo stesso successe a Kharkiv e Kherson in autunno, quando la Russia si accorse di essersi fatta annientare gran parte delle 200mila truppe investite nella guerra.

Le cose cambiano per tutti Che le cose non fossero più le stesse lo si vide il 13 febbraio 2023 dopo il picco degli scontri presso Vuhledar, poco a nord di Mariupol, in quella che è stata la prima grande battaglia di carri armati dalla fine della Seconda guerra mondiale. In un’intervista al sito 7×7 pubblicata quel giorno, un russo identificato come membro della 155a brigata affermò che solo otto membri della sua unità erano sopravvissuti all’assalto e che fino a 500 soldati in totale erano stati uccisi. “Coloro che sono sopravvissuti vengono chiamati disertori: sarebbe stato meglio se fossi stato catturato e non fossi mai tornato”. Era il segno della fine delle grandi battaglie con decine di veicoli corazzati e migliaia di uomini mossi da un posto all’altro: dalla guerra di movimento si stava passando alla guerra di trincea. Una linea lunghissima di gallerie, fortificazioni, campi minati e postazioni per cecchini era stata distesa da Kupiansk a Donetsk e da qui al fiume Dnipro, costringendo gli uomini a combattere tra brandelli di case, fabbriche sventrate, campagne incolte e boschi.

Addio ai grandi battaglioni I carri armati – da spavaldi divoratori di grandi distanze – sono diventati malfidati compagni di piccole squadre di guastatori, esploratori e assalitori. Ogni volta che una delle parti ha provato a lanciarli in massa, come i russi nella fatale Vulhedar, si è trovata con i mezzi crivellati da droni suicidi, quando non saltati in aria a decine nei campi minati. I soldati non hanno trovato quasi più edifici e grandi complessi industriali dietro cui difendersi o preparare imboscate, ma centri urbani sgretolati, finendo per cacciarsi nelle trincee, nelle miniere e nei boschi, luoghi piuttosto sicuri tatticamente dato che nessuno dei contendenti ha una forza aerea capace di sbriciolare con le bombe il suolo o incendiare le foreste, come in un nuovo Vietnam. I russi ancora usano le bombe al fosforo, ma su truppe trincerate possono poco o nulla. Né serve cercare paragoni con le battaglie del Monte Grappa: a fare la differenza in Ucraina sono anche piccole alture, la cui conquista o la cui perdita ha pesanti – ma limitate – conseguenze tattiche.

La guerra in stallo: che cosa vuol dire È una guerra che nessuno, stando così le cose, può vincere, perché quando cade una linea di difesa, ce n’è un’altra subito dopo o ci sono centinaia di truppe e mezzi che accorrono come piastrine per bloccare il sanguinamento. Né aiuta la tecnologia, dal momento che né gli arsenali occidentali né quelli post-sovietici e nord coreani sono stati riempiti pensando a una lunga bulimia di proiettili di artiglieria: secondo le stime del ministero della Difesa ucraino, illustrate a un allibito segretario alla Difesa USA Lloyd Austin, per battere la Russia in modo schiacciante su tutto il fronte l’Ucraina necessiterebbe di 17 milioni di proiettili per mortai, obici e lanciarazzi. Peccato che non ne esistano così tanti in tutto il mondo. In questa “seconda guerra” si è ridimensionata parecchio l’arma aerea: che cosa sono i droni suicidi se non le armi di disturbo di un conflitto tra Paesi appiedati? C’è da chiedersi se con gli F16 assisteremo a una terza guerra. E se sarà l’ultima.

david.rossi.italy@proton.me

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