“Lo hanno sequestrato e portato in una prigione israeliana nel deserto del Negev per poi interrogarlo e picchiarlo. Senza motivo. L’unica spiegazione è che l’hanno fatto perché possono farlo. Chi li fermerà?”. Sono le parole di Diana Buttu, avvocato palestinese ed ex portavoce dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che si occupa del caso di Mosab Abu Toha, suo amico e giovane poeta di Gaza rapito dall’esercito israeliano e poi rilasciato. Domenica scorsa Abu Toha è stato prelevato, insieme a centinaia di altre persone, mentre tentava di lasciare il nord della Striscia e raggiungere il valico di Rafah, a sud, per entrare in Egitto con la sua famiglia.

“Mosab non è stato arrestato, come hanno riferito i giornali nei giorni scorsi – afferma Buttu – è stato rapito. L’arresto implica un’accusa contro di lui, che però non è stata formalizzata. È stato interrogato, ripetutamente preso a pugni al viso e allo stomaco e poi rilasciato”. I soldati hanno picchiato duro. Il 32enne scrittore palestinese, che vanta numerosi riconoscimenti, tra i quali il premio American Book Award 2023, ha cercato assistenza medica ma non si sa se sia riuscito a farsi curare visto che, dopo l’invasione e i bombardamenti israeliani, il sistema sanitario a Gaza è collassato. “In questo momento Mosab – spiega Buttu – si trova con la moglie e i figli nella regione centrale di Gaza. Per loro sarebbe troppo pericoloso recarsi a Rafah”.

Perché hanno sequestrato Abu Toha? “Non c’è una ragione precisa – risponde l’avvocato – durante la detenzione lo hanno interrogato e gli hanno chiesto se fosse un membro di Hamas ma, in realtà, gli israeliani non sapevano chi fosse, è stato rapito insieme a un centinaio di donne e uomini”. Secondo il quotidiano israeliano progressista Haaretz, il suo rilascio è stato insolitamente rapido grazie alla pressione dei media internazionali e di alcune personalità del mondo letterario.

Nel corso dei bombardamenti Abu Toha si era rifugiato nel campo profughi di Jabaliya pubblicando, quando aveva accesso a internet, diversi post su Facebook (dove il poeta è seguito da oltre 13mila follower) per informare i suoi amici e sostenitori sulla situazione. Tanti contenuti, giudicati probabilmente scomodi, sono stati cancellati.
L’ultimo post di Mosab risale al 15 novembre: “Vivo. Grazie per le vostre preghiere. Non abbiamo accesso a cibo e acqua pulita. L’inverno sta arrivando e non abbiamo abbastanza vestiti. I bambini stanno soffrendo. Stiamo soffrendo. L’esercito è ora all’ospedale Al-Shifa. Più morti, più distruzione”.

Lo scorso 8 novembre il poeta, che durante l’invasione ha pubblicato due articoli per il New Yorker, è sfuggito per un soffio a un bombardamento: “Ancora vivo. Solo ieri mio figlio di tre anni e mezzo, Mostafa, mio cognato Ahmed e io abbiamo sfiorato la morte per caso. Ero sulla mia bicicletta, mentre Mostafa e Ahmed erano su un’altra bicicletta di ritorno verso la scuola dove ci siamo rifugiati, nel campo di Jabaliya, quando due bombe sono cadute su una casa a soli cento metri di distanza. I detriti sono caduti su di noi come pioggia”. Mostafa e Ahmed erano davanti a lui: “Ho iniziato a pedalare follemente per la strada cercandoli e piangendo. Sono arrivati sani e salvi a scuola prima di me”.

Il 1 novembre una bomba è stata sganciata a pochi metri di distanza dal luogo in cui si trovava lo scrittore nel campo profughi. “Due giorni senza connessione internet e senza servizi telefonici – ha scritto Mosab su Facebook – Il bombardamento nel campo di Jabaliya è avvenuto a soli settanta metri da noi. Un intero quartiere è stato cancellato, è stato un massacro“.

Alcuni anni fa, dopo i bombardamenti israeliani del 2014, Abu Toha ha fondato due biblioteche pubbliche intitolate allo scrittore Edward Said, una nella città di Beit Lahia, a nord della Striscia, e l’altra a Gaza City. Per questa attività, nell’ottobre del 2019, Mosab è stato invitato come poeta e bibliotecario all’università di Harvard. Le biblioteche sono nate grazie ai libri spediti da tante persone che dall’estero hanno sostenuto il progetto del giovane palestinese: una via d’uscita dall’isolamento in cui Gaza è stata chiusa. Non si sa se le biblioteche esistano ancora. La guerra potrebbe aver distrutto anche questo simbolo di speranza.

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