“Lo schema di decreto che istituisce la Commissione interministeriale incaricata di revisionare il Testo unico dell’Ambiente esautora il Parlamento”. Ed è il primo rischio, tutto politico, che prospetta a ilfattoquotidiano.it il vicepresidente della Camera, Sergio Costa, tra le altre cose, ex ministro dell’Ambiente. Costa arriva a lanciare un appello “al presidente della Camera, Lorenzo Fontana e al presidente del Senato, Ignazio La Russa, chiedendo che intervengano affinché il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin e la ministra per le Riforme, Elisabetta Casellati, rivedano il testo”. Tutto questo, ancora prima di entrare nel merito di una riforma che dovrebbe essere la grande occasione sulla strada della transizione ecologica, ma che qualche perplessità la suscita. “Tra i componenti della Commissione – aggiunge Costa- non c’è nemmeno un nome che arrivi dalle associazioni ambientaliste, ci sono politici, esperti di diritto e molti hanno lavorato per aziende dell’industria fossile o di altri settori che hanno degli interessi in gioco: questa è la strada della produzione energetica e non quella della transizione ecologica”. E sono perplessità condivise. Ilaria Fontana (M5S), intervenendo in Aula e incassando il sostegno di Pd e Alleanza Verdi e Sinistra, ha chiesto un’informativa urgente al governo per avere chiarimenti sulla commissione. Oltre ai dubbi sui criteri che hanno portato alla nomina degli esperti “abbiamo dubbi ancora più forti sulle finalità. Perché il governo vuole fare una commissione su un tema così delicato? Noi un’idea ce l’abbiamo, per avere carta bianca” ha detto. E a questa conclusione giunge anche Costa. Partendo da un aspetto giuridico.

Non è ancora dato sapere quale sarà il contenuto della riforma, ma nello schema di decreto firmato da Pichetto Fratin e Casellati si spiegano i compiti del comitato e si forniscono i nomi degli esperti che ne fanno parte.
Non solo. Il decreto porta in sé, nell’articolo 1 (lettera b) e nell’articolo 8 (punto 2), un elemento fortemente pericoloso per il Parlamento. Nel primo articolo, c’è scritto che questa Commissione deve elaborare lo schema di uno o più decreti legislativi attuativi dei principi e criteri direttivi della legge delega. Quindi la Commissione prima presenta uno schema di legge delega e poi fa i decreti attuativi. All’articolo 8, si scrive che la predisposizione degli schemi legislativi attuativi dovrà essere attuata entro il 31 dicembre 2024.

Ma c’è qualcosa che non torna…..
Se si chiede alla Commissione di fare uno schema di legge-delega, dopo questo schema approda in Parlamento, dove si prevedono le audizioni in Commissione, il testo viene integrato, modificato e votato. In un secondo momento si scrivono i decreti attuativi, anche in funzione di quello che il Parlamento ha stabilito attraverso la legge-delega. Ma se alla Commissione viene già chiesto di elaborare i decreti attuativi, dettando anche i tempi, significa che poco importa quello che faranno le Commissioni di Camera e Senato e che deciderà il Parlamento. Si dà per scontato che l’Aula approverà e approverà così come vuole il Governo. Non si può fare, è impossibile considerare la legge delega come una norma già approvata. La strada dell’Inferno è piena di sfumature, ma qui ce ne sono di pesanti. Ed è per questo che lancio un appello ai presidenti di Camera e Senato affinché intervengano.

In queste ore, il ministro Pichetto Fratin, ha assicurato che “le parti politiche avranno il loro ruolo, il loro diritto di proposta e anche di correzione”. Ma carta canta.
Al momento resto basito, neppure al primo anno di università in giurisprudenza si fanno questi errori. E non si tratta di una scivolata, dato che questo meccanismo è descritto nel primo e nell’ultimo articolo. Ed è questo un primo elemento.

Pichetto Fratin ribadisce anche la necessità di rivedere il codice dell’Ambiente, dopo quasi vent’anni. Un periodo lungo durante il quale è cambiato il mondo. Quando lo annunciò, un anno fa, spiegò che la riforma si rendeva necessaria anche alla luce dell’inserimento della tutela dell’Ambiente in Costituzione, voluta fortemente proprio da lei. Perché è necessaria questa riforma?
Non discuto che si possa rivedere anche interamente il Codice dell’Ambiente che, nonostante sia stato modificato in diverse occasioni, è un testo che ha 17 anni. Anche alla luce dell’articolo 9. Vale la pena ricordare che quell’articolo tutela ambiente, ecosistemi, biodiversità e animali per le future generazioni, nel Paese con la più alta biodiversità d’Europa. Ma se si guarda l’elenco di tecnici ed esperti, una cinquantina in tutto, che fanno parte della Commissione che si occuperà di rivedere la riforma, salta all’occhio che – rispetto ad altre professionalità – il numero di esperti nella tutela della biodiversità è infinitesimale.

Ma non è l’unico problema venuto alla luce in queste ultime ore.
Occorreva individuare delle persone distanti da poteri o interessi vari, di cui i cittadini potessero fidarsi. Vedo però che in quell’elenco ci sono professionisti, con qualità e competenze ma, per esempio, notoriamente vicine a realtà del fossile e di altri settori produttivi. Penso a Eni, ArcelorMittal, Enel, ma anche a Gse (Gestore servizi energetici) e Terna. A quel punto, sarebbe stato opportuno inserire un contraltare, mentre non c’è nessuno che provenga dal mondo delle associazioni ambientaliste, che pure in Italia hanno una storia importante e grandi qualità e competenze tra i loro tecnici ed esperti.

Qual è l’obiettivo che vuole raggiungere il Governo Meloni, attraverso questa commissione?
Leggendo i nomi e senza fare alcuna dietrologia, bypassare il Parlamento e fare gli interessi dei settori produttivi. Non certo quello di tutelare l’ambiente e la biodiversità. D’altro canto, basta dare uno sguardo a quanto fa l’Italia anche fuori dai confini e al tentativo della destra di bloccare la legge europea sul ripristino della natura. Questa è la linea politica del governo Meloni.

Qual è il rischio?
Il rischio è che non si compiano dei passi oggi necessari. Attualmente, il codice dell’Ambiente del 2006 non ha un titolo destinato alla tutela della biodiversità e alla tutela del mare e questo lo rende parziale. La tutela del mare e gli ecosistemi sono collegati ad altre norme che, però, non rientrano in un codice. I tempi sono maturi, invece, per integrare queste due parti importanti. Anche perché dobbiamo arrivare al 2030 con il 30% della superficie italiana protetta, in base alla strategia della biodiversità dell’Unione europea che abbiamo accettato e controfirmato. Il secondo passaggio dovrebbe essere quello di individuare la sovrapposizione di competenze tra Stato e Regioni. E poi, in generale, sono preoccupato del fatto che la produzione energetica possa essere il must del Codice dell’Ambiente, rispetto alla tutela di territori anche delicati e che tutto venga piegato in quella direzione.

Facciamo un esempio: come si concilia la tutela del mare e del territorio, con la caccia all’ultimo metro cubo di gas? In questi giorni, il fronte caldo è il Veneto, con gli esperti incaricati dalla Regione Veneto di valutare gli effetti sull’ambiente della ripresa dell’estrazione di gas metano dai fondali dell’Adriatico, secondo cui l’ok agli impianti non può essere concesso.
Il tema è proprio questo. Non posso pensare a trivellare, senza preoccuparmi della subsidenza. Lo sostiene anche il governatore Luca Zaia, che è della Lega. E non si può raccontare che la Croazia lo fa, perché lì ci sono fondali e coste diverse. E questo lo dicono gli accademici veneti. E allora le esigenze vanno bilanciate e, tornando alla Commissione, se non c’è chi se ne fa portavoce, il rischio è che manchi tutta una parte della discussione.

Si immagina una riforma normativa che “affiancherà l’azione di semplificazione e allo snellimento delle procedure autorizzative”. Questo riguarda diversi ambiti, certamente anche quello delle rinnovabili, finora frenate anche da tempi di attesa troppo lunghi. Secondo lei, l’Italia ha bisogno di procedure più semplici o più veloci?
Se per semplificazione intendiamo un processo che ci porta a una procedura snella, trasparenza e comprensibile a tutti i soggetti, allora è quello di cui il Paese ha bisogno. Ma se la semplificazione porta a una riduzione degli spazi di interlocuzione, per esempio con le comunità dei territori interessati da alcune opere, a maggior ragione se parliamo di territori che non possono certo contare su organizzazioni e uffici ministeriali, allora parliamo di semplicismo. E questo, ossia ridurre a un formalismo la partecipazione del territorio, non è quello di cui abbiamo bisogno.

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