Le persone sono in preda a un pessimismo cupo e pesante, alla sensazione che il sette ottobre e la tragedia immane che ci ha rotto il cuore sia già dimenticata dal mondo che dimostra per le sorti di Gaza. “Persino della storia dell’ospedale bombardato a Gaza” mi dice un’amica, “non hanno più parlato da quando si è scoperto che se lo erano bombardato da soli. I morti sono meno morti se li uccide Hamas?”.

Il mio ottico di Dizengoff mi ascolta mentre mi prova gli occhiali e mi dice che secondo lui mi sbaglio con tutte le mie strane idee per il giorno dopo. Che siamo ancora al giorno prima. Che bisogna rispondere con la forza al sette ottobre, altrimenti saremo finiti nei giorni a venire. E per sempre. Che altra scelta non c’è. E quello che pensa la mia dentista di origine tunisina degli arabi e del mondo arabo preferisco non scriverlo. Persino una mia amica, coltissima studiosa, mi dice che è il nostro destino, che non c’è niente da fare e che ci vogliono tutti morti, dall’antichità ad oggi, pogrom dopo pogrom e guarda cosa sta succedendo in Daghestan. Ma tu non hai figli, le rispondo. Nello sfondo le urla dei giovani che chiedono la distruzione di Israele dal Giordano al mare.

Persino il caro vecchio Biden comincia a pensare che la sua difesa di Israele potrebbe alla fine costargli le elezioni e il voto dei giovani democratici e dei musulmani e un pochino si sta chiedendo se non si era sbagliato, in preda all’emozione, a partire in quarta alla difesa di Israele. Forse la tragedia del sette ottobre è stata veramente troppo truce, troppo pornografica e violenta da poter essere davvero percepita. Forse anche la tragedia degli ostaggi è troppo mostruosa da poter essere veramente capita. Forse le tragedie di questa entità le capiscono fino in fondo solo i diretti interessati. Gaza è davvero una prigione a cielo aperto, ma Hamas ne aveva e ne ha tuttora le chiavi.

Tutto finirebbe in un minuto se liberassero gli ostaggi e i capi se ne andassero altrove. A Gaza lo sanno. Non succederà. Le nazioni, i leader, le persone, non amano sperimentare novità o diversi punti di vista, non amano lasciare i vecchi giochi e le vecchie posizioni, tantomeno confrontarsi con il fondamentalismo. Più facile semplificare e appiattire la visione del mondo. A me non rimangono che briciole di ottimismo, che è pragmatismo e parlare al futuro, e creatività. Poi accettare anche il buio e il pessimismo che mi si affacciano puntualmente la notte o di primo mattino: in tempo di pace come in tempo di guerra avere come primo ministro un Bibi mi preoccupa, ciò che stanno compiendo in Cisgiordania i coloni ora che l’esercito è altrove e la polizia nelle mani di un ministro piromane fascista come Ben Gvir mi terrorizza. Cosa ancora succederà al nord e col Libano e la Siria mi preoccupa. La morte e il nostro e loro infinito dolore me li sento addosso soprattutto la notte. Ma la mattina sotto la doccia, sempre rapidissima per paura del razzo, cerco di lavarmela via.

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