Sergio Mattarella, nel ricordare il magistrato Luigi Daga, ci racconta come egli “si impegnò per restringere la carcerazione ai delitti gravi, per offrire l’opportunità di reinserimento sociale dei detenuti attraverso il più ampio ricorso alle misure alternative alla detenzione”. Il ricordo si è svolto giovedì, nel trentesimo anniversario dell’attentato in Egitto che portò Daga alla morte. Ma le parole di Mattarella non guardano solamente al passato. È evidente il messaggio relativo al cosiddetto decreto Caivano, che recherebbe supposte misure urgenti di contrasto alla criminalità minorile e sulla cui conversione in legge è oggi impegnato il Parlamento.

Tanto il testo iniziale quanto un emendamento presentato da Fratelli d’Italia e, dopo un po’ di giravolte, modificato sotto spinta governativa vanno a inasprire la reazione punitiva per i fatti di lieve entità relativi alle droghe. Si tratta di quel comma 5 dell’art. 73 del Testo Unico del 1990 sul quale non a caso si andò ad agire, in senso opposto a quello cui si guarda oggi, nel 2013 quando, all’indomani della condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’eccessivo affollamento delle carceri, l’Italia fu costretta a prendere misure conseguenti. La normativa sulle droghe è infatti la protagonista assoluta delle nostre galere: un terzo delle persone in carcere è ristretto a causa della sua violazione, con un peso enorme anche sulla spesa penitenziaria. L’aumento delle pene per episodi di lieve entità, che riguardano persone che consumano sostanze psicotrope anche leggere e che sono spesso coinvolte solo occasionalmente nel piccolo spaccio, è un vero e proprio manifesto di un uso simbolico del diritto penale, fondato su aumenti irrazionali della severità sanzionatoria pur nell’evidenza storicamente comprovata della loro totale incapacità preventiva e totale mancanza di efficacia deterrente.

È evidente come si tratti solamente di un facile manifesto da dare in pasto all’opinione pubblica. La reazione repressiva al fenomeno del consumo, in particolare giovanile, che si vuole oggi inasprire continua a portare avanti un sistema che tutto il mondo – e per prime le Nazioni Unite – ha riconosciuto come fallimentare nella sua incapacità di prevenire quei fenomeni che sostiene di voler combattere. Come dimostra in Italia la mancata diminuzione del traffico e del consumo di stupefacenti dal ’90 a oggi. È un sistema dagli altissimi costi economici e sociali. Invece di intervenire sui servizi per la tossicodipendenza e sull’educazione, si punta sulla sola sanzione repressiva che finisce per diventare desocializzante, spingendo la persona esclusa a commettere i medesimi reati e, in una spirale che vede diminuire le occasioni di reinserimento, anche a diventare manovalanza della criminalità organizzata.

Ancora parlando di Daga, Mattarella ha aggiunto che “il suo insegnamento umano e professionale di fedele servitore della Repubblica rimane prezioso per rendere coerente il nostro sistema penitenziario coi principi costituzionali”. Il populismo penale è quella strategia politica che, del tutto incurante del dato statistico, mira a guadagnare facili consensi promettendo di usare il pugno di ferro contro la piccola criminalità. Sotto la spinta dei vari populismi penali – proprio come quello che oggi vediamo in azione – negli ultimi trent’anni le carceri italiane hanno visto raddoppiare la popolazione detenuta, nonché riempirsi di ogni sorta di povertà e marginalità sociale. Il nostro sistema penitenziario, così come lo stesso nostro sistema penale, si è posto in contraddizione con i principi fondamentali della Repubblica. Ringraziamo il presidente Mattarella per aver usato parole così nette nel ricordarlo.

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