“A Gaza stare sotto le bombe vuol dire attendere il proprio turno. Anche io ho vissuto diversi bombardamenti, ma questa volta faccio fatica a credere a quello che mi raccontano i miei familiari, amici e colleghi. Lo chiamano come ‘il giorno del Giudizio‘”. Yousef Hamdouna lavora come direttore dell’area Gaza di EducAid, una ong italiana di Rimini che nella Striscia ha un Centro rivolto alle persone con disabilità. Si trovava in Italia quando, dopo gli atroci attacchi di Hamas contro i civili in Israele del 7 ottobre, da Tel Aviv il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ordinato l’inizio di pesanti bombardamenti nella Striscia, poi lasciata senza corrente elettrica, acqua, benzina. E senza alcuna via di fuga, considerata anche la chiusura del valico di Rafah, alla frontiera con l’Egitto.
Una situazione drammatica per i civili palestinesi, vittime in migliaia sotto le bombe, ai quali Israele ha chiesto di spostarsi verso Sud, verso aree che dovrebbero essere più sicure. Ma che sicure in realtà non sono. “Non c’è un centimetro nella Striscia sicuro, anzi a Sud si muore ancora di più. Siamo condannati a morte, nell’attesa dell’esecuzione. Non sappiamo chi prima, chi dopo”, racconta Yousef al Fattoquotidiano.it, a margine di una conferenza promossa a Roma da Amnesty e ong come AOI per chiedere al governo italiano e alle istituzioni comunitarie e internazionali il rispetto dei diritti umani e la salvaguardia della popolazione civile.
A Gaza Yousef ha lasciato parte della sua famiglia e molti colleghi: “Una mia amica è stata estratta dalle macerie, viva. Mi ha detto che non sa se sia più fortunata lei o il resto della famiglia, che ha perso la vita nei bombardamenti. Altri mi dicono: siamo stanchi di sopravvivere“. E ancora: “I numeri che vengono forniti (sulle vittime e i feriti, ndr) non sono numeri. Sono persone. Quanti altri morti dobbiamo contare affinché questo massacro venga fermato? In Palestina tutti si chiedono: perché il sangue di un bambino palestinese conta di meno?”.
Racconta come nel 2014, sotto le bombe a Gaza, scappò con la figlia in braccio, cercando una via di fuga per potersi salvare: “Ancora oggi faccio fatica, non mi perdono. Non riuscivo nemmeno a guardarla per rassicurarla. Scappammo da mio fratello, vivendo in condizioni atroci, senza luce, senza acqua né cibo. Mia moglie era incinta e per i bombardamenti cadde e subì un trauma. L’altra mia figlia nacque prematura e con disabilità. Ho poi accettato un progetto per aiutare persone e bambini come lei, a Gaza”, racconta.
Ora il suo pensiero è rivolto a chi è rimasto nella Striscia: “Che futuro potranno avere i bambini che sopravviveranno alle bombe. Anche per chi come me non crede e si dissocia dalla violenza, si occupa di educazione, cosa potremo dire a quei figli che avranno perso le proprie famiglie?”. Per poi attaccare il silenzio di tanti Paesi, istituzioni e governi Ue compresi: “Questo silenzio uccide ogni possibilità di pace. E significa essere complici, partecipi”. Per poi concludere: “Non sappiamo nemmeno se ci sarà un futuro. Sento parlare spesso di pace. Ma la pace non potrà esserci senza giustizia e senza rispetto dei diritti umani, di tutti”.
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