Nella fatale mattina del 7 ottobre, un sabato come un altro per la maggior parte delle persone, la tranquillità della giornata è stata spezzata da un violento terremoto che ha scosso la città di Herat, in Afghanistan. Ilfattoquotidiano.it ha raccolto alcune testimonianze esclusive di chi si trova sul posto in queste ore. I soccorsi e l’assistenza di chi è rimasto senza una casa sono sempre più difficili, anche a causa delle condizioni metereologiche e le forti piogge degli ultimi giorni. Le tende sono state infatti distrutte, lasciando migliaia di individui senza riparo. I residenti sostengono che dal 7 ottobre al 15 ottobre, Herat ha subito oltre 60 terremoti e scosse di assestamento. Di questi, il terremoto principale ha toccato una magnitudine di 6,3.

Mentre le statistiche esatte rimangono incerte a causa della mancanza di fonti affidabili, rapporti e dichiarazioni locali indicano che il bilancio delle vittime varia tra 2.000 e 4.000 morti, con oltre 8.000 feriti segnalati e sotto le macerie. Accanto a queste perdite tragiche, centinaia di case sono state completamente demolite, aggravando la situazione disperata dei sopravvissuti. Purtroppo, la maggior parte delle vittime sono donne e bambini. Si sostiene che le rigide norme sociali e le paure imposte dai talebani abbiano contribuito a questo esito devastante. Secondo Sanjar Sohail, Editore e Fondatore del giornale locale 8AmMedia, i talebani hanno picchiato le donne trovate fuori senza l’abbigliamento adeguato a seguito del terremoto.

Inoltre, un gruppo di donne ha cercato di fornire abiti e cure primarie a coloro che sono stati salvati dalle macerie, ma sarebbe stato loro negato l’accesso. Aggiungendosi alla situazione difficile, gli anziani hanno sollecitato la riapertura dei bagni pubblici specificamente designati per le donne, consentendo loro di pulirsi dopo essere stati salvati. Tuttavia, le loro suppliche sono cadute nel vuoto, poiché i talebani continua a negare il permesso per rendere disponibili tali strutture.

Wahid Rahmati, scrittore, poeta e professionista della gestione pubblica che lavora con ong straniere ripercorre i primi minuti dopo le scosse: “Mi sono ritrovato nel cuore di questo disastro, assistendo di persona alla distruzione e al caos che ne è seguito. Mentre camminavo lungo Mahbas Road, una strada vivace di Herat, la mia attenzione è stata improvvisamente attirata da una casa di tre piani che collassava proprio davanti ai miei occhi. Stupito, mi sono unito alle folle di persone che si riversavano per le strade, ignare della natura della catastrofe. In una città che aveva già subito la sua dose di bombardamenti e attacchi, l’ipotesi immediata era che si trattasse di un altro atto di violenza. La natura della tragedia è diventata evidente non appena si sono sentite le grida di panico ‘terremoto’ che hanno riempito l’aria. Le strade si sono intasate di persone spaventate, i tentativi di contattare i propri cari sono stati ostacolati dall’immediata interruzione di elettricità e reti di telecomunicazioni. L’incertezza pesava nell’aria e tutti si affrettavano a fare ritorno a casa, disperati di mettere al sicuro le proprie famiglie“.

Una volta a casa, continua Rahmati, “il terreno ha continuato a tremare con scosse di assestamento, lasciandoci in uno stato di paura continua. Seguendo le linee guida di sicurezza, abbiamo abbandonato le nostre case e cercato rifugio in aree aperte. La scena era di caos totale, con donne e bambini che gridavano per lo shock e il disagio. Era un doloroso ricordo della fragilità della vita umana di fronte all’ira della natura. Tragicamente, a causa della mancanza di fonti affidabili per informazioni e comunicazioni e dell’inadeguata infrastruttura delle compagnie di telecomunicazioni, l’entità completa della catastrofe era inizialmente sconosciuta. I primi rapporti suggerivano solo una vittima e cinque feriti, ma col passare del tempo è emersa la cruda realtà. Interi villaggi nel distretto di Zinda Jan sono in rovina, con innumerevoli vite sepolte sotto le macerie”. Rahmati si dice motlo preoccupato per il futuro. “Nel mezzo di continue scosse di assestamento e le sinistre previsioni dei sismologi che avvertono di futuri terremoti, la paura regna in città. Con l’avvicinarsi dell’inverno, le famiglie si sono trovate esposte alle condizioni atmosferiche, cercando rifugio in campi improvvisati”. Mentre Rahmati parla, intorno si sente il suono delle auto che passano: “Sono qui in strada, mentre la mia famiglia si unisce alle altre per mettersi in sicurezza”. Quindi conclude parlando di quello che sta facendo nel suo lavoro quotidiano: “In questi tempi difficili, ho assunto su di me l’incarico di aiutare e sostenere la comunità colpita. Indagando sui loro bisogni e urgenze, ci sforziamo di gestire aiuti e assistenza in modo efficace, garantendo che le risorse non siano mal utilizzate o mal gestite. La città di Herat ora affronta un arduo percorso verso la ripresa. La resilienza della sua gente sarà messa alla prova, ma con il sostegno e la solidarietà della comunità internazionale, speriamo di ricostruire vite frantumate e ripristinare la speranza in una città che è stata scossa fino al midollo.”

I racconti che arrivano da Herat parlano di dolore e disperazione. Ilfattoquotidiano.it ha potuto parlare anche con un operatore sul campo che sta fornendo aiuti e soccorso. “Subito dopo il recente terremoto, ho potuto visitare uno dei campi per fare rilevamenti e registrazioni di donne e bambini che avevano perso i loro tutori. Era una mattina cupa, piena di innumerevoli storie di dolore e tristezza. Tra le molte vittime, un incontro con una giovane donna il cui racconto mi ha colpito molto”. L’operatore racconta di essere entrato nella tenda di Leila, lo pseudonimo scelto per la ragazza, e di aver iniziato una lunga conversazione. “Sedeva da sola, stringendo una scarpa tra le mani, lo sguardo fisso. Sentendo il suo bisogno di conforto, mi sono avvicinato con rispetto e ho chiesto il permesso di parlare. Senza alcuna introduzione, ha iniziato a parlare rivelando sua angoscia”. “Fratello,” ha detto, “posso parlare con te per un po’?”

A quel punto, l’operatore ha assicurato di essere “lì per ascoltare” e Leila si è aperta sulla sua devastante perdita. “Tutti ci hanno lasciato,” ha detto. “Mia madre era venuta a casa nostra con mia sorella minore e mia nuora. In un attimo di distrazione, ho lasciato la casa per andare in cucina. È stato allora che il terreno si è surriscaldato sotto di me. C’era un rumore assordante e la polvere avvolgeva tutto”. Con le lacrime agli occhi, Leila ha continuato con la voce tremante di dolore. “Mia nuora era incinta. Sai, ogni volta che mia madre veniva in città, portava una valigia piena di giocattoli. Me li mostrava con entusiasmo, dicendo, ‘questi sono per mio nipote, che arriverà presto’. Mia sorella si era appena fidanzata. Ma entrambe sono scomparse sotto le macerie. Non importa quanto ho provato, non sono riuscita a raggiungere mia sorella”.

Il dolore di Leila era palpabile mentre raccontava gli eventi tragici. “Ieri hanno tirato fuori i corpi di mia sorella, mia madre, la nostra nuora, mia suocera, mio marito, le mie due cognate, mio suocero, mio fratello minore e mio padre dalle macerie delle nostre case,” ha detto, la voce piena di dolore. “Sono andata da mia madre e le ho tenuto stretto il piede, ma non si è mossa. Le persone mi hanno tirato indietro, e ora tengo questa scarpa, un ricordo di mia madre. Vieni e annusa. Odora di mio fratello, ma perché non odora di mia madre? Porta mio fratello al nostro villaggio, e forse lì posso trovare l’altra scarpa di mia madre. Forse quella odorerà di mia madre”.

L’operatore racconta a quel punto di essersi commosso, sentendo “il peso del suo dolore”: “Avrei voluto offrirle conforto, tenerle le mani e piangere insieme. Sopraffatto dall’emozione, ho lasciato la tenda e ho cercato l’assistenza di uno psicologo nelle vicinanze, sapendo che Leila, come molti altri, aveva bisogno di più che solo parole. In tanti hanno bisogno di essere ascoltati, di essere abbracciati e di avere qualcuno che piangesse al loro fianco”.

Photos Credit: Khyber Khan

Per chi volesse sostenere la popolazione di Herat, l’associazione Emergency Rielief Herat ha lanciato una raccolta fondi .

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