La Cassazione ha annullato le assoluzioni di Renato Cortese (ex capo della Squadra Mobile di Roma ed ex questore di Palermo), Maurizio Improta (ex capo dell’ufficio immigrazione e ed ex vertice della Polfer), Francesco Stampacchia, Luca Armeni e Vincenzo Tramma nel processo sull’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua avvenuta a Roma dieci anni fa, nel 2013.

I giudici della V sezione penale hanno accolto il ricorso della procura generale di Perugia come sollecitato dalla procura generale della Cassazione che, nell’udienza di questa mattina, aveva chiesto di annullare con rinvio la sentenza pronunciata il 9 giugno 2022 quando il collegio, presieduto da Paolo Micheli, aveva assolto “perché il fatto non sussiste” dall’accusa di sequestro di persona, ribaltando il verdetto di primo grado, tutti gli imputati. I supremi giudici hanno così disposto un nuovo processo davanti alla Corte d’Appello di Firenze. Gli imputati erano stati condannati in primo grado, assolti in appello. Verdetto poi impugnato dalla procura generale di Perugia. Lo strano caso del rimpatrio di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa verso il Kazakhstan nel 2013 insieme alla figlia Alua dopo essere state prelevate dalla polizia, è quindi arrivato al vaglio dei supremi giudici.

L’accusa – Per il sostituto procuratore della Cassazione, Luigi Giordano “ci fu un’operazione di polizia legittima, alla ricerca di un latitante, che poi cambiò e divenne una operazione di espulsione un’operazione anomala con una vistosa anomalia perché riguardò anche la figlia minore”.

Il caso dell’espulsione – La vicenda era iniziata nella notte tra il 28 e 29 maggio 2013, quando Alma Shalabayeva e la figlia furono state prelevate dalla polizia nella loro abitazione di Casalpalocco: le forze dell’ordine cercavano il marito, il dissidente kazako Muktar Ablyazov, ma alla donna fu stata contestata l’accusa di possesso di un passaporto falso. Due giorni dopo, firmata l’espulsione, furono rimpatriate. La donna e la figlia sono poi tornate in Italia e a Shalabayeva nell’aprile 2014 è stato riconosciuto l’asilo politico.

“Non vi erano motivi di sorta perché gli imputati si orientassero dolosamente, e addirittura all’unisono, per danneggiare la Shalabayeva – avevano scritto i giudici della Corte di appello di Perugia nelle motivazioni della sentenza di assoluzione – Qualcosa di sconosciuto agli imputati, al contempo di perfettamente noto alla persona offesa e ai suoi difensori (il permesso di soggiorno lettone), avrebbe chiuso la storia in quattro e quattr’otto – avevano scritto i giudici di appello di Perugia nelle 345 pagine di motivazioni – evitando presunti sequestri di persona, sprechi di inchiostro in sede politica e giornalistica, da ultimo anche anni di processo, torniamo a quanto accadde veramente”. La Procura generale nel ricorso ha sostenuto che sono stati dichiarati innocenti gli imputati, “senza procedere al riascolto di testimoni di accusa, ritenuti tutti inattendibili“ e che la decisione della Corte d’appello era stata “presa in difformità delle richieste formulate dall’accusa in udienza – sottolinea la Procura generale -, ha escluso che nella vicenda siano stati commessi reati da parte dei dirigenti e funzionari della Questura di Roma”.

Le difese – Le difese degli imputati avevano chiesto ai giudici che il ricorso della procura generale di Perugia venisse dichiarato inammissibile. Gli avvocati, il professor Franco Coppi e Ester Molinaro per Renato Cortese, Bruno Andò per Maurizio Improta, Massimo Biffa per Francesco Stampacchia, Stefano Tentori per Luca Armeni e Stefano Pazienti per Vincenzo Tramma avevano definito nei loro interventi il ricorso “generico e inammissibile”. “Se questo ricorso lo avessi scritto io sarebbe sicuramente stato dichiarato inammissibile – ha detto l’avvocato Andò, difensore di Improta – Un ricorso non autosufficiente”.

Davanti ai supremi giudici il professor Franco Coppi aveva sottolineato come nella sentenza dei giudici di secondo grado “viene ricostruita in maniera puntuale tutta la vicenda con una motivazione più che rafforzata”. E in particolare, aveva evidenziato Coppi “il dato di fatto è che Shalabayeva ha dichiarato generalità false fornendo un passaporto falso. Quindi c’erano i presupposti per il trattenimento e l’espulsione. La sentenza dice chiaramente che se avesse prodotto documenti autentici non ci sarebbe stato alcun caso. Mi è dispiaciuto – aveva concluso il professor Coppi – vedere scritto nei motivi di ricorsi che Cortese con questa operazione voleva fare carriera. Cortese è il poliziotto che nel 2006 ha fatto arrestare il boss di mafia Bernardo Provenzano. E senza questa vicenda probabilmente oggi occuperebbe ben altri posti. Spero questa vicenda possa oggi concludersi definitivamente”.

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