Weekend da cornetta bollente per il capo della diplomazia cinese e ministro degli Esteri, Wang Yi, che nelle ultime ore ha sentito in due separati colloqui telefonici i suoi omologhi saudita e iraniano per discutere del conflitto in corso tra Hamas e Israele. Parlando con il ministro degli Esteri dell’Arabia saudita, Fasail bin Farhan Al Saud, Wang ha invitato Israele ad “ascoltare le richieste della comunità internazionale e del segretario generale delle Nazioni Unite e cessare la punizione collettiva dei civili di Gaza”, dichiarando che “Israele è andato ben oltre l’autodifesa” e che la priorità per Pechino è “garantire la sicurezza dei civili, aprire corridoi umanitari e garantire le necessità di base alle persone di Gaza”. Wang ha poi aggiunto che “la radice della crisi fra Israele e Palestina è che il diritto palestinese a uno Stato è stato messo da parte da tempo”.

A poco più di una settimana dall’attacco a sorpresa con cui le milizie islamiche che controllano la Striscia di Gaza hanno dato il via all’escalation con Tel Aviv, Pechino sembra stare abbandonando la sua conclamata neutralità in favore di una critica sempre più aperta della risposta israeliana all’offensiva di Hamas. Lo confermano le parole utilizzate da Wang nel corso della telefonata avuta domenica 15 ottobre con l’omologo iraniano Hossein Amir-Abdollahian, al quale ha garantito che la Cina “sostiene i Paesi islamici nel rafforzare l’unità e il coordinamento sulla questione palestinese” al fine di parlare “con una sola voce”.

Una voce, quella del mondo arabo, che Pechino ha sempre più interesse ad ascoltare, come dimostrato dalla crescente attività diplomatica della Repubblica popolare in Medio oriente. A partire dal riavvicinamento tra Teheran e Riad, avvenuto lo scorso marzo proprio grazie alla mediazione cinese, così come l’ingresso di Iran, Arabia saudita ed Emirati arabi nei BRICS allargati ad agosto. Se sulla questione israelo-palestinese Pechino sostiene la soluzione “dei due Stati” e ha provato a presentarsi come potenza neutrale prima ospitando il leader dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen a Pechino lo scorso febbraio e invitando poco dopo il premier israeliano Benjamin Netanyahu, i veri interlocutori di Pechino sembrano essere i Paesi terzi che gravitano attorno al conflitto.

Così Wang esprime “sostegno ai Paesi islamici” e provano a presentarsi come potenza responsabile e conciliatrice al resto del mondo, in opposizione agli Stati uniti che secondo la narrazione del Partito comunista “gettano benzina sul fuoco” in diverse parti del mondo. Dietro alla retorica, gli interessi economici. Con l’ingresso di Teheran e Riad i BRICS arrivano a contare il 42% della produzione globale del petrolio e negli ultimi anni Pechino ha consolidato rapporti individuali sempre più stretti sia con l’Arabia Saudita che con l’Iran.

Con la prima, Pechino nel 2021 contava un interscambio da 87,3 miliardi di dollari e i due Paesi collaborano nei rispettivi progetti di investimento, la “Vision 2030” saudita e la “Belt and Road initiative” cinese. Anche sul fronte diplomatico, il rapporto con Riad è stato suggellato dalla visita del presidente cinese Xi Jinping in Arabia saudita lo scorso dicembre, momento nel quale i due Paesi hanno firmato 34 accordi commerciali per un valore stimato di 29,26 miliardi di dollari. Tra i settori di collaborazione compaiono transizione energetica, tecnologia, infrastrutture e industria militare e una collaborazione con Huawei per lo sviluppo di soluzioni digitali per le città saudite.

Con l’Iran invece la Repubblica popolare cinese conta una comune opposizione agli Stati Uniti e il presidente Ebrahim Raisi ha più volte sottolineato che Pechino e Teheran sono “amici in situazioni difficili” a causa delle ostilità statunitensi. Nel 2022 il commercio bilaterale tra i due Paesi contava un fatturato da oltre 16 miliardi di dollari, complice l’acquisto cinese di petrolio iraniano anche dopo le sanzioni imposte da Washington nel 2018. L’interesse in Medio oriente è dunque duplice. Da una parte Pechino prova a diversificare le proprie forniture energetiche, dall’altra rimarca l’opposizione agli Stati Uniti con un obiettivo comune: capitalizzare sulla frustrazione del mondo arabo nei confronti di Washington per consolidare i propri interessi economici nella regione. Così si giustifica la sempre meno apologetica critica a Israele, dipinto dai media statali in Cina come ennesima vittima degli Stati Uniti guerrafondai, mentre per bocca di Wang Yi la Cina parla di “pace” e “giustizia” per la Palestina.

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