Coniglio bianco in campo bianco”. Lo stemma araldico crudele a Giorgio Napolitano lo cuce addosso negli anni Ottanta Giuliano Ferrara, che gli imputa una congenita mancanza di coraggio. Napolitano il cortese, il garbato, il fin troppo prudente, fin quasi a rasentare l’evanescenza, è l’accusa. Uomo politico di primo piano, mai leader per sua stessa ammissione: “Può anche darsi che chi difetti di presunzione e di ambizione – più propriamente, di ambizione al potere – non sia destinato ad affermarsi come capo politico” dirà lui cedendo il passo a Enrico Berlinguer come segretario del Pci. Eppure, per singolare contrappasso e a smentire Ferrara, quando viene eletto a 81 anni presidente della Repubblica, Napolitano diventa l’interventista, il decisionista (o l’indecisionista, a seconda dei punti di vista). Il regista delle larghe intese ad ogni costo, quello che – di fronte al primo successo a sorpresa dei 5 Stelle nel 2012, dice “non ho sentito nessun boom”. Re Giorgio, copyright del New York Times. Il coniglio mannaro, insomma.

Ma bastano i tratti caratteriali per raccontare una vita lunga come la sua? E le virtù di sobrietà e duttilità che in molti gli hanno riconosciuto (l’attenzione a non rompere mai del tutto i rapporti con interlocutori e avversari, la capacità di tessere rapporti, la paura di trovarsi con le spalle al muro che era anche di Togliatti), come i vizi deprecati con grande foga polemica (di acquiescienza vicina a volte alla connivenza, per i molti che lo disistimano a sinistra; di interferenza negli atti di governo che maschera intenti autoritari quando non assolutistici, per la destra) non saranno anche riconducibili alle grandezze e alle ombre del partito che lo ha plasmato e in cui ha militato, il Partito comunista italiano?

Le origini: Napoli e il Pci – Giorgio Napolitano nasce a Napoli il 29 giugno 1925, nel quartiere di Monte di Dio. Di fronte alla sua casa c’è il Palazzo dei nobili Serra di Cassano che ha il portone sbarrato dal 1799, quando il ventisettenne Gennaro viene decapitato per avere preso parte alla rivoluzione antiborbonica. È figlio di un avvocato liberale, con il quale avrà rapporti assai tesi quando sceglie la militanza comunista. Si iscrive al Pci nel 1945 e non è una decisione presa di slancio, ma dopo perplessità e riflessioni. Lo attraggono del Pci le idealità e, come riconoscerà il suo amico Raffaele La Capria che pure disapprova quella scelta, il suo essere una ventata di moralità nell’amorale Napoli che è uscita stremata e distrutta dalla guerra. La sua riluttanza ha il nome dell’Unione Sovietica, in un’Italia che ha fatto l’esperienza di un’altra dittatura, anche se la guerra fredda non c’è ancora, la cortina di ferro non è calata sull’Europa e, anche per gli americani, Stalin è ancora uncle Joe.

La calma pure davanti all’Apocalisse – Prima dell’adesione al Pci, maturata negli anni universitari (Napolitano si laurea in legge nel 1947, con una tesi sul mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno), c’è il liceo classico all’Umberto I (e al Tito Livio di Padova dove, sfollato con la famiglia, prende la maturità). Il giovane Giorgio scrive di cinema sulla rivista degli universitari fascisti, prova a fare anche il regista e l’attore teatrale ma non è la sua strada: “Pessimo, rigido”, lo ricorda Giuseppe Patroni Griffi. In quel 1945 il giovane Napolitano frequenta, a Capri, anche Curzio Malaparte che piace a Togliatti ma imbarazza il Pci al quale chiede la tessera (la riceverà soltanto in articulo mortis nel 1957): è stato giornalista di spicco del fascismo, corifeo e frondista a fasi alterne, e Gramsci nei Quaderni dal carcere lo ha definito un avventuriero disposto a qualsiasi scellerataggine. Malaparte gli regala una copia del suo Kaputt con una dedica illuminante: “A Giorgio che non perde la calma neppure davanti all’Apocalisse”. Napolitano ne è lusingato, lui che si descrive e si definisce “atarassico”: imperturbabile, freddo, immune a passioni ed emozioni. (“Non perdete la testa” è la raccomandazione che Palmiro Togliatti lancia ai suoi il 14 luglio 1948, dopo essere stato raggiunto dalle pallottole dello studente esaltato Antonio Pallante).

Giorgio ‘o chiatto e Giorgio ‘o sicco – Nella Napoli che si riaffaccia alla pace, nel 1946, quando i lazzari monarchici assaltano a colpi di mitra la federazione comunista di via Medina, Napolitano c’è. Assieme al maestro di una vita, il passionale e irruento Giorgio Amendola. Li chiamano Giorgio ‘o chiatto e Giorgio ‘o sicco, Giorgione e Giorgetto. Li unirà per tutta la vita la comune battaglia per la ricomposizione delle famiglie della sinistra, il dialogo con i socialisti (ma Amendola resterà fedele all’Urss fino all’ultimo, arrivando a difendere anche l’invasione dell’Afghanistan), l’avversione per i massimalismi e gli estremismi, il fastidio per il plebeismo. Li separerà il modo di porsi, flemmatico l’allievo quanto è fumantino il maestro. Ricorderà Napolitano: “Giorgio era, come ho detto più volte, un grande lottatore politico, di più, era energia politica allo stato puro: quando dava battaglia, riduceva volutamente le questioni all’osso. Io, anche per carattere, sono sempre stato più incline a guardare alla complessità dei problemi, e anche le sfumature delle posizioni e delle personalità degli amici e degli avversari”.

Carri armati in Ungheria – Si occupa di questione meridionale l’apprendista Napolitano, che viene mandato a Caserta a fare gavetta come segretario di federazione, “a scuola dalle masse”, e dal 1953 è deputato: lo resterà – con l’eccezione della IV legislatura – fino al 1996. Intanto, nel 1956, è entrato a fare parte del comitato centrale. Quando scoppia la rivolta operaia che in Ungheria assalta il quartier generale comunista, lascerà solo il generoso gigante Giuseppe Di Vittorio che pure ammira, schierato con gli insorti, e sarà pubblico ministero contro l’amico dissidente Antonio Giolitti, che promuove il “manifesto dei 101”, la prima levata di scudi degli intellettuali comunisti contro Mosca e la prima rottura dell’unanimismo all’interno del Pci. Lo farà con scrupolo, pentendosene in seguito: il “compagno Giolitti” per lui non ha visto “come nel quadro della aggravata situazione internazionale, del pericolo del ritorno alla guerra fredda non solo ma dello scatenarsi di una guerra calda, l’intervento sovietico in Ungheria”, evitando il caos e la controrivoluzione, “abbia contribuito in maniera decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo”. Anni dopo, nel 1968, quando le truppe di Mosca invadono la Cecoslovacchia, sarà lui, vice de facto del segretario Luigi Longo, a scrivere il documento che condanna l’intervento. Longo, che in teoria dovrebbe essere più legato a Mosca ed è appena tornato dalla tradizionale vacanza in Unione Sovietica, glielo corregge con un tratto di penna: via “grave dissenso”, al suo posto un più netto “riprovazione”. Eccola, la prudenza di Napolitano all’opera.

Il migliorista: la scalata al partito – Negli anni ‘60 l’affidabile Giorgio scala le posizioni, nell’organigramma del Pci: responsabile del lavoro di massa nel 1960-62, reggente della federazione di Napoli dal 1963 al 1966, anno in cui entra a fare parte della direzione del partito, diventando coordinatore dell’ufficio di segreteria e dell’ufficio politico, in pratica il delfino di Longo che dal 1964 ha preso il posto di Togliatti. In quel Pci legato all’unanimismo, che non ammette le correnti ma di fatto le tollera, Napolitano fa parte della destra amendoliana, attenta ai rapporti con i socialisti (troppo attenta e subalterna, secondo la sinistra e gli avversari interni che in anni successivi, regnante nel Psi Bettino Craxi, conieranno per lui e per gli altri l’epiteto spregiativo e vagamente infamante di “miglioristi”) e favorevole all’esperimento del centro-sinistra. È in parte, la sua e quella di Amendola, fedeltà al contraddittorio lascito di Togliatti: il “doppio binario” che al Pci rinfacciano gli avversari, legame con Mosca e lealtà costituzionale, voglia di uscire dalla conventio ad excludendum e di pesare nel gioco politico in patria in nome dei lavoratori che rappresenta, di “stare nelle cose” separando la politica dalla propaganda, ma anche rifiuto di una normalizzazione che dissiperebbe le ambiguità (la ripulsa della “socialdemocrazia”, l’enfasi sul “superamento del capitalismo”, pur muovendosi all’interno dello stato di cose esistente e in gran parte accettato, con proclami palingenetici assai vaghi: il primo dei dogmi reggerà fino al Pds di Achille Occhetto, verrebbe da dire fino a Matteo Renzi, quando già il socialismo europeo si avvia a diventare uno spettro; il secondo fino agli anni tristi del dopo-Berlinguer).

Codardo o realista – Nel 1964 il Pci ha l’occasione per “uscire dal guado” e fare la sua Bad Godesberg. Lancia il sasso nello stagno Giorgio Amendola, proponendo di lavorare alla creazione di un partito della sinistra che unifichi socialisti e comunisti, ma la proposta viene avversata e, ancor più, lasciata cadere come se non fosse stata neanche pronunciata. Anche in quell’occasione, come ha già fatto con Di Vittorio nel 1956, Napolitano lascia che il pur molto amato Amendola corra solo verso il baratro. Codardia, realismo? Napolitano spiega che non è il caso di ingaggiare battaglia quando non la si può vincere: il rischio è quello di ritrovarsi ai margini, condannati a svolgere pura, per quanto nobile, opera di testimonianza. Meglio stare tra quelli che reggono la barra, cercando di indirizzare il tragitto del carro. È, in nuce, la concezione della politica che in anni a venire sfocerà nel governismo. Nel non dare mai battaglia fino in fondo, nel conformarsi alle scelte di maggioranza temendo le rotture, c’è anche un vecchio precetto cattolico che la chiesa comunista fa suo: extra ecclesiam nulla salus.

La corsa a Bottega Oscure – La tattica non gli giova particolarmente, in termini di potere. Quando nel 1969 Luigi Longo decide di avviare le consultazioni tra i big del partito per scegliere chi gli deve succedere, il suo nome, assieme a quello di Alessandro Natta, è nella rosa dei papabili. E lui si è appuntato sul petto la medaglia della guerra vinta contro il leader della sinistra interna, Pietro Ingrao. Che gli riconoscerà di non avere infierito perché Napolitano, anche quando è dalla parte dei vincenti, mira a non esasperare il conflitto. Ma gli preferiscono Enrico Berlinguer, che conosce meglio di lui gli ingranaggi del partito (“Fin da giovane si iscrisse alla direzione del Pci”, secondo l’acida battuta di Giancarlo Pajetta) e, soprattutto, ha avuto da Longo la delega in bianco ai rapporti internazionali. Napolitano non fa una piega e, negli anni Settanta segnati dalla solidarietà nazionale, sulla scia della teorizzazione del compromesso storico con la Dc (il governo della “non sfiducia” guidato da Andreotti, che dovrebbe essere l’anticamera dell’ingresso del Pci al governo) è in consonanza con il segretario.

L’attacco a Berlinguer – Cambia tutto con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, nel 1978. Il Pci, per Berlinguer, è diventato “l’uomo che prende gli schiaffi”, che firma cambiali in bianco al governo senza che una sua proposta passi. Nel 1979 decide di porre fine all’esperienza, che sta logorando il partito. Napolitano è riluttante a staccare la spina, persino il vecchio amico e sodale Gerardo Chiaromonte glielo rimprovera. Volano scintille, è scontro aperto con il segretario quando Berlinguer, nella famosa intervista a Eugenio Scalfari del 1981, lancia il problema della questione morale e della “diversità” dei comunisti. Napolitano lo mette in guardia, in un articolo sull’Unità che fa scalpore, contro i rischi del settarismo e dell’isolamento, dell’arroccamento con lo sguardo rivolto al passato. Per Berlinguer è un attacco sleale e, peggio, un atto di lesa maestà: i rapporti fra i due, anche a livello personale, si guastano in maniera irrimediabile.

I socialisti e il compagno B – Ancor peggio le cose andranno quando scoppia la lotta all’ultimo sangue tra il segretario del Pci e l’arrembante Bettino Craxi, nel 1984: con Napolitano che prova invano – dall’altra parte della barricata cerca di venirgli incontro Rino Formica – a sminare il terreno della battaglia sulla scala mobile. Con il decreto di san Valentino, Craxi ha soppresso tre punti dell’indennità di contingenza, il meccanismo di rivalutazione automatica che aggancia le retribuzioni al costo della vita. Per Craxi quel meccanismo consolida l’inflazione, per Berlinguer che promuove un referendum abrogativo (il Pci, dopo la sua morte, lo perderà) quello di Craxi è un attacco inaudito ai lavoratori. Sul terreno restano i cocci di una sinistra che non proverà mai più a camminare insieme.

“Former communist”: il periodo da battitore libero – Intanto Napolitano è diventato un battitore libero. Dal 1986 al 1989, nei brevi anni che precedono la caduta del Muro di Berlino, è il “ministro degli Esteri” del Pci. “La mia storia” dice “non è rimasta uguale al punto di partenza, ma è passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni”. Fausto Bertinotti commenterà pungente: “È stato un uomo della destra comunista. Poi un socialdemocratico. Infine è diventato un liberale. Ma sempre senza sussulti e senza strappi: un’incarnazione vivente del rinnovamento nella continuità”. Di casa in Inghilterra e negli Stati Uniti dove tiene conferenze nelle università, stringe rapporti con i leader socialisti europei ed è apprezzato anche dagli antichi nemici: “My favourite communist” lo saluta Henry Kissinger e lui, con aplomb molto anglosassone, non a caso lo hanno soprannominato Lord Carrington e la cosa non gli dispiace, replica: “Former communist”. Nel 1992 ribadisce, parlando in prima persona plurale come Giulio Cesare: “Ci caratterizza l’antica convinzione che il Pci abbia tardato a trasformarsi in un partito socialista di stampo europeo”. Deplorevole, per i detrattori, ma forse puntare sul “carattere anticapitalista” della Democrazia Cristiana era un’opzione più convincente?

La salita al Colle – Senatore a vita dal 2005 (lo ha nominato Carlo Azeglio Ciampi), dopo essere stato presidente dei deputati comunisti (1981-1986), parlamentare europeo in due legislature (1989-1992 e 1999-2004), presidente della Camera (1992-1994) e ministro degli Interni nel governo Prodi (1996-1998), Napolitano nel 2006 è, ufficialmente, fuori dai giochi (ha aderito al Pds sorto dopo lo scioglimento del Pci, pur non apprezzando granché le vaghezze e le irruenze di Achille Occhetto, e in seguito ai Ds). Un padre nobile senza particolari ambizioni, con una lunga vicenda politica alle spalle. Il suo nome viene buono a sinistra – l’usato sicuro – quando si sgonfia la candidatura di Massimo D’Alema al Quirinale. Lui accetta e al quarto scrutinio, con 549 voti su 990 votanti, viene eletto.

Troppi via libera al Caimano – La seconda fase della vita di Giorgio Napolitano comincia qui, e molto inchiostro è stato versato per ripercorrerla nei dettagli. Nel discorso di insediamento, dice come di consueto che rappresenterà tutti e che auspica un confronto civile e costruttivo fra maggioranza e opposizione (lo aveva già detto nel 1994, nella dichiarazione di voto sulla fiducia al neovincitore Silvio Berlusconi, ricevendone complimenti e strette di mano). Restando all’essenziale, ma i rilievi sono molto più numerosi di quelli che qui ricordiamo, secondo i critici il presidente è fin troppo accondiscendente con il Caimano: nel 2008 gli firma senza sollevare obiezioni il lodo Alfano sull’immunità delle alte cariche dello Stato (la Corte Costituzionale lo boccerà); nel 2009 firma la legge sullo scudo fiscale senza rinviarla all Camere e Di Pietro lo accusa di viltà; nel 2010 firma il decreto del governo per riammettere alle regionali della Lombardia e del Lazio le liste del Polo delle Libertà escluse per mancanza dei requisiti di legge; nel 2010 promulga la legge sul legittimo impedimento del capo del governo e dei ministri, contestata dai pm di Milano e ritenuta parzialmente incostituzionale dalla Suprema Corte. Lo accusano anche da destra di interferenza: come quando fa sapere a Berlusconi, nel febbraio 2009, che non firmerà il decreto per tornare ad alimentare Eluana Englaro, non ancora scritto ma annunciato. L’ira del centrodestra esplode soprattutto quando, nel 2011, costringe alle dimissioni un traballante Silvio Berlusconi, con lo spread alle stelle e l’Italia nel mirino degli speculatori, e affida l’incarico all’economista Mario Monti, che ha provveduto a nominare senatore a vita tre giorni prima: l’accusa è di colpo di stato dei “poteri forti” e se è tecnicamente infondata – il governo Monti ottiene una larga e insolita fiducia dal Parlamento – restano tuttavia agli atti le pressioni della Bce e delle cancellerie europee per un cambio di passo.

Trattativa e non solo: quei brutti rapporti coi pm – Ancora più controversi sono i rapporti di Napolitano con la magistratura. Nella sua veste di capo del Csm, il presidente interviene per stigmatizzare i magistrati fuori dal coro (Henry John Woodcock del quale chiede il fascicolo, Luigi De Magistris) e, soprattutto, solleva presso la Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo che, nell’ambito delle indagini sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia, ha anche Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza. L’ex ministro della Dc telefonava spesso al Quirinale, soprattutto per parlare con Loris D’Ambrosio, consulente del Colle per le vicende inerenti alla giustizia. In quattro occasioni, però, Mancino parla anche direttamente con Napolitano. Quelle intercettazioni sono irrilevanti ai fini penali, la procura di Palermo ne avrebbe ordinato la distruzione nel corso di un’udienza stralcio in cui sarebbero stati presenti gli avvocati delle parti in causa, come prevede il codice di procedura penale. Ma Napolitano si impunta: le comunicazioni del presidente sono riservate e inviolabili, vanno distrutte senza che nessuno le ascolti, punto e basta. La Corte Costituzionale gli dà ragione ma i costituzionalisti si spaccano. Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte, lo critica aspramente e il penalista e scrittore Franco Cordero lo accusa di volersi ritagliare prerogative da monarca assoluto.

Il bis di Re Giorgio e le larghe intese – Nel 2013 Re Giorgio, esaurito il settennato, accetta di dare il bis e viene rieletto – è la prima volta nella storia della Repubblica – al sesto scrutinio, con 738 voti su 997 votanti. Proseguendo l’esperienza della larghe intese inaugurata con il governo Monti (nato dalla scelta di non sciogliere le Camere dopo la caduta di Berlusconi) e ignorando la novità politica di quegli anni, cioè il Movimento 5 Stelle (celebre, dopo il successo alle amministrative del 2012, la sua frase ai cronisti: “Di boom ricordo quello degli anni Sessanta, altri non ne vedo”). Così tiene a battesimo due governi compositi guidati da Enrico Letta e – “Enrico, stai sereno” – da Matteo Renzi. Poi nel 2015 la rinuncia e l’uscita di scena, con rari interventi da senatore a vita. Che cosa resta della sua lunga esperienza? Anche a evitare la polemica a tutti i costi, a scegliere di non affondare il coltello nella piaga, una lunga stagione spesa a normalizzare il Pci e a farlo entrare nell’arena del potere – “Veniamo da lontano, andiamo lontano” era un vecchio e fortunato slogan comunista – prima in nome dei ceti subalterni e poi, tramontato il sol dell’avvenire, in nome del senso di responsabilità. Il governismo che ha logorato la sinistra e il Pd non sarà tutta colpa sua, ma Napolitano non è stato privo di responsabilità. Come il gatto del Cheshire che in Alice si smaterializza e del quale prima di scomparire resta appena la chiostra dei denti, anche di quegli ideali è rimasto soltanto un sorriso. Un sorriso senza gatto.

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