Non ci fu nessuna responsabilità penale per la morte, ma l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per il decesso per overdose di un uomo mentre era in stato di arresto in questura a Milano. Era il 10 maggio 2001. La motivazione è che è stato “violato il diritto alla vita di un uomo”. Secondo quanto stabilito, i poliziotti che avevano arrestato l’uomo – perché sospettato di reati legati al traffico di droga – non hanno preso tutte le precauzioni che si possono ritenere necessarie al fine di ridurre il rischio che morisse a causa di un’overdose mentre era sotto la loro custodia. L’Italia dovrà pagare 30mila euro per danni morali alla madre, la compagna e la figlia della vittima. A fare ricorso alla Corte di Strasburgo il 23 dicembre 2011 erano state la madre, la compagna e la figlia. L’uomo venne dichiarato morto poche ore dopo.

Il pubblico ministero aprì un’indagine, il 3 aprile 2003 dalle prove raccolte non erano emersi elementi che potevano collegare la morte dell’uomo a eventi esterni commessi da terzi e che non era ipotizzabile un atto criminale. La madre, la compagna e la figlia presentarono comunque una richiesta di risarcimento danni contro il ministero dell’Interno per omissione di soccorso e omessa sorveglianza. Il tribunale di primo grado ritenne il ministero dell’Interno responsabile della morte dell’uomo e riconobbe 100mila euro di danni alla madre e 125mila alla figlia. Ma il Viminale fece appello e lo vinse, così come vinse in Corte di Cassazione. Oggi la Corte di Strasburgo ha stabilito che “il governo non ha dimostrato in modo convincente di aver offerto alla vittima una protezione sufficiente e ragionevole della sua vita” pur essendo al corrente delle sue condizioni e dei rischi connessi.

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