Putin e Zelensky non siederanno mai allo stesso tavolo per discutere la pace”. È lapidario il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera. Non solo sarà complicato un dialogo tra Mosca e Kiev senza il ritiro delle truppe russe dal Paese, come ripetuto decine di volte dall’establishment ucraino, ma questo, eventualmente, dovrà per forza avvenire attraverso la mediazione di altre potenze, come successo, ad esempio, per gli accordi sul grano: “Servono soluzioni fantasiose – ha dichiarato il capo della diplomazia – Da parte nostra, non possiamo più fidarci del presidente russo”. Ma quando gli viene chiesto della proposta di pace del Vaticano, taglia corto: “Non vedo novità. Ma l’invito in Ucraina per il Papa rimane valido”.

Affermazioni che sono un messaggio chiaro per altri due attori in particolare: la Turchia, che dopo l’intesa sull’export del grano ucraino sta cercando di riproporsi come mediatore, e soprattutto la Cina, Paese che nell’ultimo vertice di Jeddah, in Arabia Saudita, ha ribadito l’importanza del principio dell’integrità territoriale, pur rimanendo amica di Mosca e mantenendo su di essa una certa influenza.

“Non siamo più disposti a negoziare direttamente con Putin. I crimini commessi dall’inizio dell’aggressione del nostro Paese sono troppo gravi perché si possa sedere allo stesso tavolo. Assolutamente, non ci fidiamo di lui. Però una mediazione da parte di terzi è possibile”, ha precisato il ministro degli Esteri ucraino. La palla passa quindi in mano alle potenze più coinvolte, direttamente o indirettamente, nel conflitto esploso un anno e mezzo fa e il ministro dice che non ha nessuna intenzione di subire le pressioni di chi, anche nel fronte occidentale, ritiene che senza una svolta nella controffensiva si dovrà arrivare a un tavolo negoziale entro la fine dell’anno. “La controffensiva progredisce lentamente, ma continuamente. I problemi maggiori sono costituiti dalle forti posizioni difensive erette dai russi nell’ultimo anno. Non è facile per i nostri soldati avanzare. Ma ce la faremo”, risponde prendendo ad esempio la battaglia di Montecassino, durante la Seconda Guerra Mondiale, vinta dagli alleati dopo 4 mesi di scontri.

Kuleba giudica comunque positivamente la presenza di Pechino al summit di Jeddah: “Fondamentale che la Cina fosse al summit, un messaggio politico positivo. Presente a un incontro multilaterale in cui si discuteva il piano di pace ucraino. Anche se adesso non ci attendiamo svolte drammatiche. E comprendiamo anche la relazione speciale che intercorre tra Mosca e Pechino. Ciò richiede una diplomazia molto delicata per garantire che la Cina resti dalla parte della pace e dell’integrità territoriale ucraina”. E sull’ipotetico invio di armi cinesi a Mosca, il ministro mostra cautela: “Non abbiamo mai visto sino ad ora l’invio di armi cinesi alla Russia. E speriamo che ciò non cambi, anche se siamo consapevoli del fatto che Mosca è molto interessata alle armi cinesi. Sappiamo di industrie cinesi che esportano componenti impiegate dall’industria bellica russa, un flusso minore. Condividiamo queste informazioni con il governo cinese, sperando che prenda provvedimenti”.

A influire sul futuro del conflitto saranno inevitabilmente anche le elezioni americane. In caso di vittoria di Trump, stando almeno a quanto dichiarato dal tycoon, la linea Usa cambierebbe radicalmente, con la ricerca di una pace rapida con Mosca. È ciò in cui spera Vladimir Putin, ma su questo il capo della diplomazia di Kiev glissa: “Noi andiamo avanti. Putin è dal 2014 che conta sulle elezioni di qualcuno, ma i risultati non lo hanno mai aiutato. Continuo a pensare che il fattore tempo ci sia alleato per il semplice fatto che le nostre capacità militari crescono, quelle russe diminuiscono. Trump? Staremo a vedere”.

Ma per avviare colloqui di pace a distanza, sostiene, non è necessario un cambio di regime a Mosca: “Possiamo negoziare con la Russia dopo il ritiro delle loro truppe dalle nostre terre, ma non con Putin. Questo obbiettivo può essere raggiunto con un misto di guerra e diplomazia. I nostri generali si occupano della prima, il loro lavoro è spingere i russi a ritirarsi e a comprendere che parlare è meglio che combattere. Io mi occupo della diplomazia e di dialogare quando possibile”.

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