C’è una breccia che si è aperta in quello che sembrava l’impenetrabile muro opposto dalle Asl italiane ai malati che chiedono di poter morire perché le loro condizioni rientrano nel perimetro dei quattro requisiti della sentenza Dj Fabo-Cappato. L’ha aperta l’Unità sanitaria locale di Treviso nel Veneto governato dal leghista Luca Zaia per aver fornito farmaco e strumentazione a Gloria, 78 anni, malata oncologica, che due giorni fa è morta grazie al suicidio assistito. Le autorità sanitarie infatti hanno considerato una forma di sostegno vitale le terapie oncologiche a cui era sottoposto la donna che nelle ultime settimane era peggiorata e aveva chiesto il 12 luglio scorso che si procedesse. Accanto a lei il dottor Mario Riccio, il medico che aiutò Welby e che da anni si batte perché i malati terminali in condizioni di sofferenza insopportabili, possano scegliere di liberarsi di corpi che a volte diventano come prigioni. “Sono esperienze che ti segnano profondamente e alle quali – credo – non si riesce mai ad essere preparati” racconta al Fattoquotidiano.it

Per la prima volta a un malato che chiede di essere libero e poter morire sono stati forniti farmaco e strumentazione. Finalmente è stato fatto il primo passo sulla Luna?
È sicuramente un evento significativo, perché la struttura del Servizio sanitario nazionale di riferimento, cioè l’Usl di Treviso, si è fatta carico non solo di verificare i requisiti, come espressamente indicato nella sentenza della Corte costituzionale inerente il caso Dj Fabo-Cappato, ma ha anche ritenuto di dover fornire i mezzi materiali per l’assistenza al suicidio (farmaci ed attrezzature). Inoltre ha riconosciuto che le terapie oncologiche, a cui la signora Gloria si sottoponeva, dovevano essere intese quali “forma di sostegno vitale” e pertanto hanno permesso di soddisfare il 4° punto indicato dalla Consulta stessa. Infatti finora si riteneva che forme di sostegno vitale potessero essere solo quelle più strettamente intese (ventilazione, alimentazione) o al massimo i farmaci cardiaci. Ha però dichiarato di non aver ricevuto la disponibilità di personale medica, pertanto sono intervenuto io. In verità sarei voluto intervenire anche qualora ci fosse stato un medico del Servizio sanitario, anche per espressa volontà della signora Gloria con la quale si era formato un solido rapporto medico-paziente.

Se è possibile può raccontarci cosa vi siete detti?
Nel rispetto della riservatezza, posso dire che Gloria era fermamente convinta della sua volontà. La sua condizione la poneva a rischio di perdere la sua capacità di intendere e volere o di non poter più muovere le mani: questo lo preoccupava perché si vedeva costretta in una condizione di impossibilità ad autodeterminarsi. Ci ha sempre ringraziato per il nostro impegno. Fino all’ultimo momento, proprio mentre ha liberato il morsetto che teneva chiusa la flebo con il farmaco che l’ha condotta a morte. Sono esperienze che ti segnano profondamente e alle quali – credo- non si riesce mai ad essere preparati.

Ci sono altre due persone – Stefano Gheller e “Antonio” – che hanno chiesto e ottenuto il via libera dal Comitato etico e il secondo in una intervista ha raccontato che l’ok gli ha fatto ritornare la voglia di vivere. Cosa ne pensa?
Può sembrare strano, ma è di comune riscontro, ad esempio confrontandosi con le organizzazioni che si occupano della materia in paesi che hanno legiferato in proposito che riferiscono un dato del 40%, che i richiedenti la morte medicalmente assistita, una volta ottenuta la cosiddetta green light, poi non accedano materialmente alla stessa. Questo perché anche il solo sapere di averne la possibilità li tranquillizza. Poi magari scelgono un percorso palliativo o talora muoiono per una complicanza improvvisa. Comunque il sapere di avere la possibilità di decidere quando vogliono ,li permette un periodo sereno.

Ci sono poi quei casi – che non entrano nel perimetro della sentenza Dj Fabo – e per cui come in passato rischiano penalmente in prima persone Cappato e altri volontari. Sarà un’altra battaglia che finirà alla Consulta?
La sentenza Cappato non si è occupata, purtroppo, della questione eutanasia. Non tutti i richiedenti possono autonomamente somministrarsi il farmaco. In questi casi, al di là di altre importanti considerazioni etico-giuridico in merito, sarebbe necessario introdurre anche l’atto eutanasico.

Intanto ci sono i casi di coloro che attendono da mesi il responso della verifica delle condizioni o chi è stato costretto alla sospensione delle terapie e a una lenta morte sotto sedazione profonda con distacco dell’alimentazione e dell’idratazione. Come medico e come attivista qual è la sua riflessione?
È ovviamente una considerazione amara, in questo paese in tema di diritti civili è necessario procedere per “strattoni”, lo abbiamo visto ai tempi dell’aborto, del divorzio, delle unioni civili di fatto. È un paese dove la classe politica ci mette sempre tanto ad accettare i cambiamenti sociali.

Lei è stato il medico di Piergiorgio Welby e ormai da quasi 20 anni si batte perché alcuni malati possano scegliere di non soffrire più. Quanta strada manca al raggiungimento di una vera libertà?
In tal senso sono preoccupato. Il clima politico è ovviamente dei peggiori. Non è ragionevole aspettarsi che il Parlamento, nell’attuale composizione, legiferi in tal senso, anzi sarebbe solo da temere qualcosa se decide di farlo.

Perché sui temi etici in Italia le leggi devono essere il frutto di singole battaglie – a volte lunghe ed estenuanti anche nel caso Englaro – su cui poi devono intervenire i giudici?
Anche su questo tema il mio animo è preoccupato. È imminente un sorta di “ricambio” all’interno della Corte costituzionale e temo che l’attuale governo – a cui come noto è demandata parte della nomina – intenda “occupare” anche quell’organo giuridico. Negli ultimi anni – bocciatura del referendum sull’eutanasia a parte – abbiamo apprezzato una grande sensibilità della corte verso i temi dei diritti civili. Da domani non ne sarei più sicuro.

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