Pubblichiamo un estratto del libro “Nessuno è perfetto, ma l’amore sì. Adozione e bisogni speciali” (edizioni San Paolo) di Francesca Mineo. Un testo dedicato al tema dell’adozione e del diventare genitori, accogliendo i bambini e le bambine con tutte le loro complessità. Prosegue tra queste pagine il viaggio iniziato dall’autrice nel precedente “Adozione. Una famiglia che nasce”. Mineo fonde la sua esperienza con il parere di esperti in un percorso di crescita e consapevolezza che arriva alla stessa conclusione: al di là delle classificazioni, le adozioni oggi richiedono ai genitori qualche risorsa in più.

Introduzione

«Guidami tu. Portami a casa».
«No, meglio di no».
«Perché?»
«Perché non so orientarmi. Non vedo bene. Non sono sicuro. Non sono capace».
«Va bene, allora tolgo gli occhiali anche io. E proviamo a tornare a casa».

Vi domanderete: ma chi sono questi due matti che – a quanto pare – non hanno esattamente una vista di 10 decimi e azzardano avventure urbane senza la certezza di prendere il tram giusto o di imbroccare la strada di casa?

Sono una madre e un figlio.

La mamma sono io, sono piuttosto miope ma – non si sa come – anche senza occhiali me la sono sempre cavata abbastanza bene.

Il figlio è un ragazzino di origine cinese all’inizio della sua adolescenza: bellissimo (è mio figlio…), dal portamento elegante, con due meravigliosi occhi a forma di chicco di riso leggermente orientati verso l’alto, ipovedente a causa di un nistagmo congenito. E qui cominciamo con il primo indizio: il nistagmo è il cosiddetto “bisogno speciale” che stava scritto nella casella apposita – salute – all’interno della sua scheda, poche righe accanto ad altezza, peso e altre informazioni su di lui. C’era perfino la misura della circonferenza del cranio.

Il giorno dell’abbinamento1 ci lessero la scheda e quella parola suonò del tutto nuova per me e mio marito, un termine medico-scientifico per indicare un difetto visivo di cui però non avevamo informazioni precise. In parte le avremmo chieste, in parte le avremmo conosciute in seguito.

Era questo il cosiddetto special need, il bisogno speciale di nostro figlio che avremmo adottato: un problema alla vista che avrebbe richiesto visite, forse cure, magari interventi chirurgici, e certamente adattamenti nella vita sociale futura.

Già me lo vedevo, quel piccolo Mr. Magoo con le lenti trifocali.

Ma non divaghiamo, qui si trattava di un bambino vero, in carne e ossa, che stava per diventare nostro figlio.

Appunto, nostro figlio.

Durante l’abbinamento previsto dal percorso adottivo, gli operatori dell’ente autorizzato leggono il testo che hanno a disposizione, fornito dall’orfanotrofio; spiegano, commentano, suggeriscono in base alle informazioni sul bambino o i bambini e sulla coppia.

E poi c’è un momento sospeso. Quel momento avviene quando la lettura è finita, ci si guarda tutti quanti, prima che i genitori dicano qualcosa o non riescano magari a farlo, per la commozione.

In quei pochi secondi, il bisogno speciale esiste. O forse no.

Anche quando lo special need sulla carta richiederebbe più coraggio e impegno rispetto a una ipovisione, nella gran parte dei casi la coppia, arrivata preparata a quell’istante così atteso, immagina già la sua famiglia che come tale, come tutte le famiglie, è capace di trovare soluzioni ai problemi contingenti ma non mette in discussione tutto il resto.

Nel momento sospeso di quel primo incontro ci sono solo una bambina, un bambino, dei fratelli, un adolescente, una ragazzina che cercano una famiglia.

E quindi se parliamo di special needs è perché di fatto sono sì bisogni reali, ma che riguardano tutti i minori adottabili, in Italia o all’estero, al di là delle classificazioni previste dalle Convenzioni internazionali: una suddivisione creata nel tentativo di fare ordine e di suggerire indicazioni per facilitare gli abbinamenti con le coppie

Special needs sono, in fondo – è il mio parere di genitore – le reali necessità di tutti i bambini: amore, tempo, stabilità, regole, ascolto, accudimento, presenza.

Di questo e altro leggerete in questo libro: di adozioni e bisogni richiesti da questi bambini; di figli che cercano di far pace, affrontare e convivere con i loro special needs più o meno gravi e con il loro passato prima dell’adozione; di genitori del tutto normali, che attraverso l’esperienza e le situazioni del quotidiano valorizzano gli elementi diversi dei loro figli, riconoscendone l’unicità.

Di bambine, bambini, fratelli che iniziano a vivere un nuovo presente.

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S di Special

Voglio una vita (molto) speciale

Speciale evoca qualcosa di unico, di diverso dal solito, di particolare, con un’accezione positiva. Capita però che le parole siano bifronti. Anche speciale non è da meno, e nasconde il suo lato d’ombra, perché in nome del politically correct può indicare una deficienza, una mancanza.

Nell’adozione, che per molto tempo è stata ammantata di un’aura di eroismo, speciale è il termine utilizzato per indicare appunto quei bambini che la Convenzione dell’Aja definisce come bisognosi di cure particolari, special needs, appunto.

Le etichette non sono mai una gran cosa, anzi.

E infatti è qui che il termine sprigiona tutta la sua energia ambigua: riversa per un attimo, sugli aspiranti genitori, quel senso di unicità positiva che l’adozione di un figlio è capace di suscitare.

Poi, come un boomerang, li colpisce alla nuca.

Proviamo a immaginare un dialogo – molto verosimile in realtà – tra futuri genitori in attesa, molto vicini all’abbinamento con il loro figlio, e un operatore dell’ente per le adozioni, quando arriva il momento di tirare le somme dopo lunghi percorsi analitici.

«Quindi mi sta dicendo», chiede un padre entusiasta, «che non stiamo per adottare un piccolo Superman?»

«Oh sì, certo, vostro figlio sarà… speciale, unico, come il vostro amore…!» risponde l’operatore, che già sta misurando le parole e soprattutto quel termine, speciale.

«Si spieghi meglio», incalza la futura madre, piuttosto guardinga.

Dopo la nota trafila di colloqui psicologici, anni di attesa, esami medici e indagini varie – per non parlare degli amabili interrogatori in famiglia, da quando ha comunicato che arriveranno uno o più figli – gradirebbe non ricevere ulteriori sorprese.

Soprattutto sorprese.
Ed ecco che speciale si rivela in tutta la sua complessità. Si comincia così a scendere nella realtà, ad avere davanti agli occhi i volti e le storie di bambini che hanno subìto traumi o maltrattamenti, che hanno qualche problema di salute da risolvere o con cui convivere tutta la vita; che hanno più di 7 anni o si presenteranno in un gruppo di fratelli (fratrìe) perché, dopo tutto quello che hanno sofferto, separarli ancora sarebbe un delitto.

Ma non bastava l’abbandono?
Pare di no.
Domanda legittima, però.
Non bastava che gli adulti che hanno generato la o le creature – leggasi: i genitori biologici, quelli che per molti sarebbero i “genitori veri” – abbiano deciso, per mille drammatici motivi, di gettare la spugna e di tenerli fuori dalle loro vite?

C’è sempre qualcosa di più. Qualcosa, appunto, di speciale nella non scelta, prima, e nella scelta, poi.

Non dimentichiamo, infatti, che l’abbandono dei minori è anche questo: è la decisione, spesso dettata da difficili o tragiche circostanze, di non voler essere genitore di un bambino.

L’adozione è esattamente l’opposto.

Dicevamo: il solo abbandono non basta come carico da 90 sulle spalle di questi bambini in arrivo da luoghi diversi e lontani del pianeta, ma anche dall’ospedale dove sono stati lasciati alla nascita o dalla comunità di protezione per minori.

Le adozioni oggi sono così: accoglienze di bambini con necessità particolari, non creature rosee uscite da una immaginaria fabbrica di bebè.

Da nuclei familiari disgregati o monofamiliari, da istituti o case famiglia arrivano in adozione bambine, bambini, preadolescenti, gruppi di fratelli la cui storia di abbandono è molto complessa, spesso difficile e traumatica. A questo si aggiunge sempre dell’altro.

Se l’abbandono – facciamo un’ipotesi – fosse un braccialetto immaginario intorno al polso dei nostri figli, i bisogni speciali aggiuntivi sarebbero i charms, i piccoli ciondoli che tintinnano intorno. E si fanno sentire, pure loro. Ma possono anche staccarsi, con il tempo, o cambiare forma.

Speciale, quindi, in che senso?

Speciale nell’accezione di complessità alla quale ciascuno, a seconda delle proprie sensibilità ed esperienze, può attribuire con la sfumatura positiva o negativa.

Sono bambini ancora più bisognosi?

Senz’altro: hanno bisogno di genitori (eccoci di nuovo…) speciali, perché dovranno essere consapevoli di quanto dovranno affrontare nel divenire padre e madre con l’adozione. Consapevoli, quindi, in che senso?

Consapevoli…

… che nessuno è perfetto, nemmeno loro, i genitori;

… che la vita è fatta di salute e malattia, di momenti sereni e altri tristi;

… che conoscere e informarsi scaccia via molte paure, anche quella di adottare un ragazzino di 9-10 anni o una bambina con un problema di salute, più facilmente curabile in Italia che nel suo Paese di origine;

… che diventare genitori con qualche anno di saggezza in più – oggi l’età media di chi adotta è 46 anni – dovrebbe assicurare un qualche equilibrio interiore e quindi la capacità di affrontare e gestire eventuali avversità.

E poi, proviamo a fare un gioco. Per un momento, osserviamo questi genitori da fuori, come se fossimo noi quei figli in attesa. Riassumendo, questi genitori saranno: grandicelli(over40), come i bambinispecialneeds (over7);
con qualche problema di salute (infertilità e altro), come i bambini con bisogni sanitari;
con qualche trauma (lutto da infertilità, crisi di coppia eccetera) come molti bambini delle liste special needs che portano ancora il ricordo di traumi passati (e le sofferenze che bambini e bambine hanno subìto sono, di norma, più significative di quelle dei genitori);
in gruppo come le fratrie? No, questo no, state tranquilli. I genitori sono sempre due, ma data la loro età e la loro esperienza avranno senz’altro costruito, negli anni, reti di amici e parenti pronti ad accogliere insieme a loro due o più fratellini inseparabili.

Cari futuri genitori, a questo punto non vi sentite anche voi un po’ speciali?

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