“A casa si parlava di pallavolo dalla mattina alla sera, mio padre faceva l’allenatore e mi ha messo in testa dei principi fondamentali per il mio futuro di atleta prima e di coach poi”. Radostin Stoytchev lavora in Italia dal 2007. Era il vice alla Dinamo Mosca, quando il direttore sportivo Giuseppe Cormio, l’uomo che nel 1983 aveva portato in Italia anche Julio Velasco, ha avuto l’intuizione di dargli in mano la panchina del Trentino Volley dopo un semplice colloquio. Da quel momento il coach bulgaro vince in Italia quattro scudetti, altrettanti mondiali per club, tre Champions League e tre Coppa Italia. Dal 2019 è l’allenatore di Verona Volley, che ha portato quest’anno al quinto posto in campionato. “Mio padre mi allenava solo in casa e nei periodi estivi, per il resto ho sempre avuto altri allenatori perché lui non ha mai voluto intromettersi troppo”.

Quali sono i principi pallavolistici di papà Svetoslav, da allenatore medaglia d’oro al campionato europeo juniores del 1986?
Il primo è di non arrendersi mai. Con la juniores in Bulgaria si giocava spesso all’aperto in campi di terra battuta: un tuffo in difesa poteva significare delle belle ferite. Una volta mi capitò di perdere molto sangue da una gamba e di rimanere a terra per un po’. Papà era lì come spettatore: ‘Cosa stai facendo, alzati, gli altri non devono sapere che hai male…’ Io mi sono vergognato, più tardi a casa mi ha detto che anche con una gamba sola mi sarei dovuto alzare. Mai a terra, nemmeno per la delusione di una sconfitta.

Il secondo insegnamento?
Non è mai importante come gioco io, ma se la mia squadra vince, i giocatori più forti sono quelli che fanno giocare bene gli altri.

Il terzo?
Se al mondo uno può fare una cosa, allora puoi riuscirci anche tu. Se dedichi tempo, energia e intelligenza puoi farlo, niente è impossibile.

Questi principi li trasmette anche ai suoi ragazzi?
Li ricordo ai miei giocatori quasi ogni giorno, ma uno deve sentirli dentro. Le parole non sono sufficienti, perché il giocatore deve avere carattere e mentalità. Io ci provo, non mi arrendo, ma non ci riesco con tutti.

Dagli allenatori che ha avuto nella sua carriera di giocatore ha imparato sempre qualcosa?
Anche da quelli non bravi. Ho saputo far tesoro dei loro punti forti: una cosa tecnica, uno spunto tattico, un esercizio in allenamento, la metodologia di lavoro. Sono stato fortunato a cambiare allenatori in Paesi diversi.

In ogni Nazione bisogna avere un atteggiamento diverso?
La pallavolo è lo stesso sport dappertutto e chi la sa giocare la gioca bene in ogni luogo. Quando cambio Paese, io non cambio i miei principi ma cerco di adattarmi e di rispettare le tradizioni culturali locali. Non divento diverso da me stesso, questo è un cambiamento che non accetto.

Dove ha avuto le maggiori difficoltà?
In Turchia ho vinto tutto, fatto il triplete e raggiunto la finale di Champions. Ma ho affrontato parecchi problemi, così ho cambiato aria ritornando a Trento. Il secondo Paese in cui non mi sono trovato bene è stato il mio, quando ho guidato la Nazionale bulgara. Non in campo, ma con la gente che lavora nella pallavolo: le persone sono buone o brutte dappertutto.

Farebbe un’altra esperienza in Nazionale?
Assolutamente sì. Però allenare contemporaneamente club e Nazionale è un sacrificio mentale e fisico che posso affrontare solo in maniera temporanea, non sistematica.

Un allenatore impara anche dai propri giocatori?
Ogni giorno. Io ascolto cosa pensano, questo mi aiuta molto se un giocatore è aperto. Anzi imparo più da loro che non da altri allenatori. Mi piace frequentare anche persone di altri settori, come per esempio manager di azienda, che per la loro intelligenza mi fanno vedere lo sport da un altro punto di vista.

E dagli altri sport?
Da adulto mi hanno affascinato i libri biografici di Ferguson, Guardiola e Cruyff. Per i loro modi di guidare la squadra e prendere decisioni. Sono un appassionato di calcio, da piccolo giocavo. E soprattutto mi piacciono le storie che possono servire da esempio.

Ha allievi che portano avanti le sue idee?
Raphael de Oliveira è tornato in Italia dal Brasile, per aiutarmi a trasmettere a Verona l’etica del lavoro. L’ha fatto in maniera fantastica. Un grande aiuto in campo. Può diventare un buon allenatore, ma lui dice di no. Magari in un altro ruolo riuscirà a trasmettere i suoi valori.

Nel 2016 è stata inaugurata a Sofia la “Scuola di pallavolo Stoytchev-Kaziyski”.
Io e Matej ci sentivamo in dovere di fare qualcosa per la pallavolo e per il nostro Paese. È un’accademia per ragazzi e ragazze di tutte le fasce di età, siamo arrivati a quasi 200 iscritti. L’obiettivo è di trasmettere innanzitutto i nostri principi e in seconda battuta farli crescere come pallavolisti. Non abbiamo la prima squadra, non c’è l’ambizione di fare del professionismo e non c’è alcuno scopo economico.

Come vengono scelti i maestri nella vostra scuola di Sofia?
Devono essere persone oneste con una passione vera per la pallavolo, poi tutto il resto si può migliorare. Ogni anno ci capita di sbagliare nella scelta. Riconosciamo che è un nostro errore e cerchiamo di correggerlo l’anno successivo, abbiamo sempre fatto così. La cosa più grave per un allenatore è di non essere corretto con i ragazzi. Che non abbia senso di giustizia quando guida la squadra.

Lei ha lanciato tanti giovani in prima squadra.
Giannelli, Kaziyski, Juantorena, Nelli, Lanza… mi piacciono i giovani di talento così come gli esperti di talento, ma sono stato costretto spesso per un discorso di budget societario a dare possibilità ai ragazzi. Mi piace vedere come questi si sviluppano durante la stagione, è stimolante. Ovviamente tante scommesse con i giovani le ho perse.

In questa intervista ha citato più volte le sue sconfitte.
Io mi ricordo solo delle sconfitte, di tutte, quasi niente delle vittorie. Dalle sconfitte si impara a trovare motivazione per crescere. La vittoria a volte dà sensazioni che non poggiano sulla realtà. Cerco di usare le sconfitte per migliorare. Quando uno smette di crescere non ha più strada davanti a sé.

Lei quando ha deciso di diventare allenatore?
Ero molto giovane e non capivo come certi allenatori non vedevano alcune cose, senza preoccuparsi di analizzarle, che io già intuivo. Mi piaceva guidare la squadra ma mai contro l’allenatore. Quando mi è stato chiesto di fare il coach, non ho potuto dire di no, poi da quel momento non mi sono più allontanato dal ruolo.

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