Anche Silvio può sbagliare. Una frase che Berlusconi non ha mai amato molto. Soprattutto quando si parlava di pallone. Eppure l’uomo che si vantava di riuscire a distinguere il talento molto prima dei suoi avversari ha inanellato una serie notevole di cantonate. Perché la storia del Milan del Cavaliere è costellata da una galassia di campioni dalla classe abbacinante. Ma anche da qualche bidone entrato ormai nell’immaginario collettivo. La lista è lunga. Bogarde, José Mari, Lehmann, Dhorasoo, Coloccini, Fernando Torres, Onyewu, Destro. Eppure ce ne sono almeno cinque che sono diventati addirittura totemici per i tifosi rossoneri (ma soprattutto per quelli delle altre squadre).

Michael Reiziger (10 presenze, 0 gol) – Il Milan degli olandesi. Ma quelli sbagliati. Nell’estate del 1996 il Diavolo è in ristrutturazione. Capello se n’è andato. Al suo posto arriva Tabarez (“Il mio calcio è simile alla Nba”, dirà presentandosi) e anche qualche nuovo giocatore. Grazie alla Legge Bosman il Diavolo soffia all’Ajax il mastino di centrocampo Edgar Davids e il terzino di spinta Michael Reiziger. Sembra un affare. In verità sarà un disastro. Fino a gennaio l’olandese gioca appena due partite (pareggio per 0-0 in casa della Juventus e sconfitta per 3-2 a Piacenza). Poi la partenza di Panucci verso il Real sembra aprirgli nuovi spiragli. Ma il sogno dura appena 4 partite. Reiziger finisce imbullonato alla panchina. Ad aprile un giornalista gli domanda: “La partenza di Panucci ha fatto crescere la sua tranquillità?”. La risposta è glaciale: “Veramente ero tranquillo anche prima. La tranquillità viene dalle qualità che uno ha dentro. Io conosco le mie”. Solo che nessun altro sembra averle viste. A metà maggio Arrigo Sacchi, tornato per provare a salvare la stagione, lascia in panchina l’olandese anche nella sfida contro una Reggiana derelitta, ultima in classifica. L’addio sarà indolore.

Claudio Borghi (0 presenze, 0 gol) – L’innamoramento era avvenuto nella notte dell’Immacolata concezione. L’8 dicembre 1985 Juventus e Argentinos Juniors si contendono la Coppa Intercontinentale. Alla fine vincono i bianconeri, ma fra gli argentini spicca un fantasista che sembra destinato a un grande futuro. Si chiama Claudio Borghi e secondo molti è l’erede di Maradona. Al termine della partita Platini definisce l’avversario “Il Picasso del calcio”. Redondo, che in quel periodo si era affacciato alla prima squadra del club argentino, dirà qualche tempo dopo: “Il pallone per lui era la naturale appendice delle gambe”. Berlusconi, sensibile al fascino della tecnica pura, anche (se non soprattutto) quando è eterea, decide di acquistarlo per 3.5 miliardi di lire. Sarà una scelta che rimpiangerà a lungo. Borghi non si adatta al calcio italiano, litiga spesso con Sacchi, considera pesanti i suoi allenamenti. “Perché devo correre chilometri se il campo è lungo 100 metri?” domanda un giorno all’uomo di Fusignano. Niente di strano per uno che al Corriere aveva detto: “I giocatori di talento devono dosare le forze, perché altrimenti la fatica annebbia le idee”. La sua parentesi italiana si esaurisce tutta in un prestito al Como, dove giocherà 7 partite senza lasciare tracce.

Digao (1 presenza, 0 gol) – Nell’estate del 2003 il Milan acquista dal San Paolo un ragazzo che sembra danzare sul prato verde. Si chiama Kakà ed è destinato a ridefinire il concetto di grazia. Il suo ambientamento procede senza intoppi, ma per facilitargli le cose il Diavolo decide di comprare un altro brasiliano, suo ex compagno al San Paolo. Il suo nome è Digao e gioca come difensore centrale. Il fatto che sia il fratello di Kakà è un dettaglio del tutto trascurabile. Qualche mese dopo, a gennaio, un cronista chiede a Ricardo il nome del prossimo fuoriclasse in arrivo a Milanello, Kakà risponde serafico: “Forse Diego, forse Robinho. Facciamo così, dico mio fratello Digao: gioca nella Primavera del San Paolo, è molto bravo. Arriva tra 20 giorni”. Il centrale sbarca a Milano nell’indifferenza più totale. Qualcuno però decide di attribuirgli i giusti meriti. È stato proprio Diago, infatti, a inventare il nomignolo Kakà. Perché quando era piccolo proprio non riusciva a dire Ricardo, così si limitava a ridere la sillaba Ka. Resterà la cosa più notevole fatta vedere a Milano.

Ricardo Oliveira (26 presenze, 3 gol) – Nell’estate del 2006 il Milan si trova ad affrontare un problema piuttosto complesso: sostituire sua maestà Andriy Shevchenko, finito al Chelsea. Trovare uno in grado di reggere quell’eredità non è semplice. Galliani prova ad acquistare Ronaldinho, ma il Barcellona si mette per traverso. Così prova ad acquistare Ronaldo, ma il Real si mette per traverso. Alla fine il Condor dira fuori un asso dalla manica e punta tutto su Ricardo Oliveira, attaccante che si era messo in mostra con la maglia del Betis. L’affare si chiude in fretta, per 16 milioni di euro più il cartellino della meteora Vogel. Al suo primo atto in rossonero Oliveira mostra coraggio, prendendosi proprio la maglia numero 7 di Sheva. “Mi hanno spiegato che era la sua e io ho insistito: ‘La prendo lo stesso, che problema c’è?’. Io sono qui per scrivere la mia. Non ho paura di una maglia”. All’esordio, contro la Lazio, trova il gol dopo appena 8 minuti. Ma la sua stella non si accenderà mai. A fine stagione viene girato in prestito con diritto di riscatto al Real Saragozza. Senza lasciare rimpianti.

Alessio Cerci (29 presenze, 1 gol) – Il Thierry Henry di Valmontone si consacra definitivamente con la maglia del Torino, dopo ani altalenanti fra Roma e Firenze. Nell’estate del 2014 l’Atletico Madrid lo acquista per 16 milioni di euro e gli offre la possibilità di giocare in Champions. È un’opportunità unica. Tanto he la sua fidanzata Federica Ricciardi pronuncerà una frase diventata tormentone: “Ce ne andiamo nel calcio che conta!”. Le cose però non vanno così bene. Cerci gioca poco, segna un gol in Champions, ma non sembra poi incidere molto. A gennaio torna in Italia, al Milan, ma il meglio sembra ormai alle spalle. Il giocatore esplosivo ammirato a Torino è un ricordo. Alessio viene fischiato dai tifosi del Diavolo e la sua avventura finisce dopo due semestri incolori. “Forse sono stato un po’ pigro nel pensare che bastasse il mio talento per giocare in Champions League: dovevo lavorare un po’ di più per formarlo meglio – ha detto a Tiki Taka – Non posso negare di avere dei problemi importanti fisici, sono stato operato diverse volte al ginocchio, e questo non mi faceva spingere al meglio, avendo nell’esplosività la mia arma migliore”.

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