Estratto da “Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato” di Monica Lanfranco (Vanda edizioni).

Insegnate che ‘no’ significa no
Cresciamo in una cultura ancora in grande prevalenza pervasa da influenze culturali patriarcali misogine e, di conseguenza, rischiamo di educare le persone giovani che abbiamo accanto trasmettendo, in particolare ai nostri figli maschi, un pregiudizio atavico: quello secondo il quale le ragazze e le donne dicono di no alle avances e alle proposte sessuali, ma in realtà questo loro rifiuto è ambiguo, e in parte si tratta di un sì solo rimandato, che quindi potrebbe essere anticipato con qualche ‘forzatura’.

Sembra un dettaglio di poco conto ma attenzione: il pericolo molto concreto è che passi il messaggio che le femmine umane, oltre a non essere per nulla chiare e autonome rispetto ai loro desideri e decisioni, siano creature un po’ incerte e quindi da ‘accompagnare’, magari con una spinta un po’ rude, soprattutto nelle faccende sessuali.

Si tratta di un ben misero scenario relazionale, nel quale gli uomini sarebbero predoni costantemente in caccia di donne all’apparenza riluttanti ma in realtà vogliose, che di conseguenza descrive, e rende lecita, l’ottima probabilità di una sessualità tossica e impositiva da una parte e arrendevole e mai limpida dall’altra.

Per le implicazioni e le collusioni in questo scenario davvero triste con i dettami religiosi vi rimando al denso libro Anatomia dell’oppressione del quale ho scritto la prefazione, redatto dalle due giovani attiviste del gruppo femminista Femen Inna Shevchenko e Pauline Hillier, delle quali riporto qui un passaggio: ”Gli sforzi delle religioni patriarcali per diffondere un’immagine erronea della donna hanno dato vita al sessismo globale, responsabile dei più grandi massacri dell’Umanità. Profondamente ancorato negli spiriti, ivi comprese le società occidentali laiche, il sessismo ogni anno costa la vita a migliaia di donne. Per controllare tutto intero il loro essere le religioni ne annettono il corpo: organo dopo organo, membro dopo membro, con regole assurde e infondate, impongono la loro autorità”.

Restando vicino a noi, nella domestica cultura latina che fa da sfondo a molti luoghi comuni della cultura mediterranea, vorrei ricordare il detto (da brividi) vis grata puella (la violenza è gradita alla fanciulla) che trae spunto da un verso dell’ars amatoria di Ovidio.

Il passaggio è questo: “Vim licet appelles: grata est vis ista puellis: quod iuvat, invitae saepe dedisse volunt.”

Ecco servito e apparecchiato l’immaginario collettivo che plasma mentalità, atteggiamenti, e quindi pratiche, in base alle quali le donne non potrebbero prendere iniziativa sessuale né tanto meno cedere subito alle proposte di un uomo, dovendo presentarsi pudiche e ritrose, predisponendosi così, in virtù di questa naturale passività, a subire come ovvie e gradite le eventuali incursioni sessuali del maschio. Che tristezza, che povertà.

Vi sembra tutto molto lontano e superato come retaggio culturale? Purtroppo non è così.

Proprio la frase vis grata puella è stata utilizzata molte volte, nel corso della storia politica e della giurisprudenza italiana recente in casi di violenza sessuale, a parziale giustificazione dei perpetratori.

Non si contano le volte in cui, ovviamente a fin di bene e pensando di tutelare le giovani donne, specialmente sui social, si leggono frasi che invitano vivacemente le madri a insegnare alle figlie come difendersi e come riconoscere un ragazzo e un uomo violento.

Il problema, dal mio punto di vista, è però che si dimentica un fatto fondamentale, e cioè che, oltre (e insieme) a insegnare alle ragazze tutto ciò che è possibile su come difendersi, è però imprescindibile agire, in primo luogo, sui ragazzi e sugli uomini, affinchè la causa primaria della violenza maschile sulle donne sia rimossa, ovvero il comportamento violento degli uomini.

Nessuno dei nostri figli nasce cattivo, misogino, predatore: nessun bambino o ragazzo lo è.

Sono l’esempio, i comportamenti appresi, i messaggi culturali, diretti e indiretti, ad autorizzare i maschi a diventare arroganti machisti e pericolosi predatori, perché la violenza si insegna.

La buona notizia è che anche la nonviolenza si insegna, ed è in questa pratica quotidiana di rispetto, senso del limite e di collaborazione che si costruisce la felicità propria e quella di chi ci sta accanto.

E’ importante associare nei comportamenti, fin dalla più tenera età, il concetto che si deve chiedere sempre il permesso prima di toccare le altre persone. Ricordo bene il mio disagio di bambina quando mi si obbligava a dare un bacino a persone adulte che non conoscevo, per salutare ed essere, quindi, gentile come una bambina avrebbe dovuto essere secondo la tradizione.

Non era possibile sottrarsi, pena grande imbarazzo di tutte le persone adulte che mi circondavano e, sottotraccia, delusione e disappunto per un comportamento inatteso e ritenuto inopportuno.

Al contrario, sia a maschi che alle femmine, va insegnato il magico potere della parola ‘no’.

Alle bambine e alle ragazze è importante insegnare a esprimere il loro dissenso, se non desiderano che qualcuno le tocchi, o le segua, o comunque dia loro fastidio, ma è forse ancora più importante insegnare ai bambini e ai ragazzi che se una bambina o una ragazza dice no queste due lettere sono il limite invalicabile alle loro azioni e ai loro desideri.

Insegnare il senso del limite non è limitare, vietare o impedire: significa offrire il margine e il confine sul quale costruire relazioni sane ed equilibrate, nelle quali sono valide e apprezzabili tutte le voci e i desideri in gioco.

Come sostiene Asha Phillips nel suo I no che aiutano a crescere nelle famiglie spesso si creano situazioni di disagio per la semplice incapacità di dire un no. Dovrebbe essere ovvio che in certi casi bisogna dire di no, eppure l’opinione comune è che sia meglio dire di sì.

Non saper negare, o vietare, qualcosa al momento giusto può però avere conseguenze negative sulle relazioni, in famiglia, nei gruppi di pari così come anche sullo sviluppo della personalità.

Secondo Phillips a volte dire no è molto utile, “in quanto apre un intervallo, uno spazio in cui possono verificarsi altri eventi. Da questo punto di vista non è tanto una restrizione, quanto un’occasione per il dispiegarsi della creatività”.

Prendo in prestito questa suggestione perché, anche nella mia esperienza di formazione sulla risoluzione nonviolenta dei conflitti, ho sperimentato l’efficacia terapeutica del no (più che del sì) nella costruzione di reciproca chiarezza e fiducia, nelle coppie così come nei gruppi.

Ho verificato che i ragazzi, e gli uomini, sono meno abituati a sentirsi dire di no, (e risulta evidente a causa di quello che si diceva prima circa l’educazione e i messaggi patriarcali della nostra cultura) perché le donne sono poco spinte a cercare di negoziare una soluzione comune, pur tenendo fermo il loro punto di vista.

Le donne sono educate a dire più spesso sì che no per non apparire eccessivamente assertive, caratteristica maggiormente attribuita agli uomini o comunque al maschile.

Eppure dire sempre di sì, anche se l’accordo sembra reale, rischia di azzerare ogni differenza. Di certo la conformità appare, a tutta prima, un conforto e una sicurezza, ma alla lunga genera staticità nelle relazioni.

La vita e le relazioni sono, al contrario, in continuo movimento.

Abituare le bambine e le ragazze a dire di no, e di conseguenza educare i figli maschi che sentirsi dire di no è salutare: può incoraggiare l’ascolto e la curiosità verso le differenze di idee diverse, e offrire un’occasione di cambiamento.

Dire no, e ricevere un no nelle sue varie forme, significa essenzialmente stabilire una distanza fra un desiderio e la sua soddisfazione.

Per stare insieme e costruire relazioni dobbiamo, talvolta, lasciar andare.

Solo allora potremo impegnarci in uno scambio autentico e alla pari.

Un no non è necessariamente un rifiuto dell’altra o dell’altro, né una prevaricazione, ma può, invece, dimostrare la fiducia nella sua forza e nelle sue capacità.

Insegnare ai maschi che si deve accettare un rifiuto, soprattutto da parte di una donna, è dare loro la libertà di stare in contatto con la parzialità del loro essere. E’ un grande regalo da fare ad un figlio, o ad un giovane uomo che state guidando verso l’autonomia e fuori dal patriarcato.

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