“In un paio di giorni” dice al telefono da Khartoum un Brigadier Generale in pensione che non vuol essere nominato per motivi di sicurezza. Le notizie diffuse dall’esercito sudanese sembrano incoraggianti per i militari fedeli al generale Abdel Fattah Al Burhan che sostengono di aver preso il controllo di gran parte della capitale. Quelle sul destino del suo rivale, il generale Mohamed Hamdan Dagalo Hemeti si rincorrono: è ferito, si sta rifugiando in Etiopia, è in fuga verso il Ciad. Difficile dividere il vero dalle leggende africane. Al Burhan non vuole la tregua da tutti invocata, vuole invece una vittoria militare ed è convinto di poterla ottenere in pochi giorni. Intanto la guerra è entrata nella sua seconda settimana, il terzo Paese più grande dell’Africa è in ginocchio, nelle città si è alla fame, 50 ospedali sono stati bombardati e abbandonati. Quasi 1.000 i civili uccisi, difficile la stima delle perdite dei due schieramenti in una battaglia dove non si fanno prigionieri. In ogni caso gli aeroporti del Paese sono sotto il tiro dell’artiglieria di Hemeti, quello di Khartoum è addirittura occupato dalle sue RFS. A Khartoum 2, una delle zone più esclusive della capitale sudanese, sciamano per le strade bande di minorenni armati e arruolati nelle RFS senza alcun controllo: razziano e saccheggiano tutto quel che trovano. Soldati-bambino alti poco più del Kalashinikov che imbracciano con gli occhi spiritati e la sigaretta in bocca.

Con queste notizie dal terreno, la possibile evacuazione degli stranieri dal Sudan al momento appare estremamente complicata. Senza un aeroporto non si può fare nulla e l’aerostazione di Khartoum è il principale campo di battaglia fra i due generali. Un percorso in macchina verso la frontiera col Ciad è lungo e pericoloso, la costa del Mar Rosso dista dalla capitale circa 1.000 chilometri. Impossibile quindi l’uso di elicotteri che decollino da navi che incrociano al largo della costa.

Nonostante ciò, il deterioramento della situazione nella capitale sudanese, senza acqua e senza elettricità, ha spinto il presidente americano Joe Biden a ordinare l’evacuazione del personale diplomatico americano. Al tramonto di ieri, scortato da altri velivoli, un V-22 Osprey – un aereo a decollo verticale come gli elicotteri – è atterrato nei pressi dell’ambasciata americana e ha preso a bordo i 70 diplomatici Usa. Dall’aereo sono scesi 100 uomini delle Forze Speciali Usa – compresi quelli del Team 6 dei Seal della Marina Usa – per creare una safety area per l’imbarco dei civili. Non è stato sparato un colpo e in meno di un’ora l’operazione salvataggio è stata completata e l’Osprey è decollato alla volta di Gibuti. Qui i diplomatici americani sono al sicuro dalla mattinata di domenica.

Nelle basi di Gibuti sono in stand by anche i militari francesi della Legione Straniera ma anche gli uomini della brigata San Marco della vicina Base Militare Italiana di Supporto (BMIS) “Amedeo Guillet”. Una compagnia di “teste di cuoio” tedesche è ferma da due giorni in un aeroporto militare in Grecia in attesa di ordini. Un’operazione di salvataggio europea è tutta da scrivere, non è mai accaduto prima. Il coordinamento militare di diversi Paesi per un’operazione di salvataggio di migliaia di civili in una zona di guerra non si pianifica in 24-48 ore. I cittadini europei in Sudan sono circa 2mila in rappresentanza di sette Paesi dell’Ue, fra loro circa 200 sono gli italiani. I dipendenti della nostra sede diplomatica sono rifugiati da giorni nella residenza dell’ambasciatore Michele Tommasi.

Non ci sono segnali invece di evacuazione da parte altri Paesi, come Turchia, Russia, Cina, mentre altri diplomatici arabi – dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti – sfidando la sorte hanno intrapreso il viaggio in auto – quasi 1.000 chilometri – per raggiungere Port Sudan e da qui via nave Jedda. I diplomatici dei Paesi europei sono in gran parte rifugiati nelle residenze dei rispettivi ambasciatori, ma la bandiera che sventola sui cancelli non è una protezione. Le residenze non sono in genere un luogo sicuro, sono conosciute in città, si trovano in quartieri residenziali che attraggono i numerosi gruppi di sbandati nella capitale che razziano e saccheggiano e sono spesso difese da una forza armata che è solo simbolica. La residenza dell’ambasciatore della Ue è stata devastata, come quella dell’ambasciatore giapponese. In quella francese dall’interno sono riusciti a respingere l’assalto. Una situazione che non è facile gestire per settimane.

Inoltre l’evacuazione del personale diplomatico significa la chiusura – anche se temporanea – dell’ambasciata. Devono essere bruciati tutti i documenti, fascicoli e faldoni, codici, incartamenti “sensibili”, libri contabili, timbri, carte intestate. Vanno “sfondate” le macchine per la stampa dei passaporti, carte d’identità e patenti, le macchine cifrate per la trasmissione di dati riservati verso l’Italia, verso la Farnesina, verso i nostri apparati di sicurezza. L’evacuazione degli occidentali e la chiusura delle ambasciate naturalmente significa consegnare i destini del Sudan e dei suoi 45 milioni di abitanti ai nuovi padroni dell’Africa: la Cina, la Russia, gli arabi del Golfo.

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