Madeleine: una data, un ricordo, un personaggio – La rubrica del venerdì de ilfattoquotidiano.it: tra cronaca e racconto, i fatti più o meno indimenticabili delle domeniche sportive degli italiani

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Facile facile l’ultimo gol della stagione: il dodicesimo, mica male, che a salvezza acquisita e anzi, dopo aver sognato l’Europa, battere pure la Roma è una soddisfazione. Facile facile: ribattuta dopo una respinta corta del portiere, che magari il calcio fosse sempre così. Spingere dentro un pallone al Menti, dopo capovolgimento di fronte da sinistra verso destra con rigoroso tributo visuale al fu palo di sostegno, era un giochino da ragazzi per chi giocava scalzo a Montevideo, all’ombra della Fortaleza del Cerro spaccandosi spesso le unghie sulle pietre. E beccandosi il resto, poi, da mamma Ana a casa. Tipa tosta mamma Ana, che alla fine dopo le ramanzine d’ordinanza curava le ferite del piccolo Marcelo Otero, che a Montevideo quando poteva scappava a giocare a pallone. A giocare o a guardarlo: papà Raul, orefice, è un grande appassionato e nei week end porta il piccolo Marcelo e il figlio più grande Omar a vedere le partite. Certo, sempre assumendosene il rischio, che se Ana con Marcelito borbotta ma alla fine prevale il cuore di mamma, diverso sarebbe il caso di riportarlo tutto tumefatto con la complicità del papà.

Ed è proprio quel che accade quando Raùl porta Marcelo ormai 12enne a vedere una partita del torneo di quartiere: la squadra di un suo amico è sotto di 2 a 1 e un componente viene meno, gli propongono di far entrare il ragazzino. E alla fine accetta. Marcelo segna il 2 a 2, probabilmente si concede qualche virtuosismo di troppo e si becca un calcio all’inguine tornando a casa gonfio e dolorante. Marcelo racconterà che Ana di fronte a quella visione e appurata la complicità del marito sia andata molto vicina a entrare sul consorte peggio di Paolo Montero su un avversario. Ma Marcelito è forte, entra nelle giovanili del Rampla, passa una stagione in prestito nelle giovanili del Nacional Montevideo, ma poi lo lasciano tornare al Rampla. Sono i primi anni ’90, e in Uruguay si staglia nitida la figura di Paco Casal: i campioni ce li ha tutti lui. E allora papà Raul ha un’idea: parla con un contatto vicino all’agente e gli dice che il figlio di un amico gioca molto bene al Rampla, e fornisce l’indirizzo di quella che è casa propria. Dopo aver visto Marcelo giocare gli emissari di Casal bussano alla sua porta: “Perché non ha detto che era suo figlio?”. “Perché altrimenti non sareste venuti a vederlo” replica Raùl. E allora Marcelo passa al Penarol, all’epoca la squadra più forte d’Uruguay, ci gioca per tre campionati e ne vince altrettanti e guadagna la nazionale: Ruben Sosa è infortunato e il ct Nunez allora chiama Marcelo per giocare con Daniel Fonseca ed Enzo Francescoli. Otero segna all’esordio col Venezuela, poi ai quarti contro la Bolivia dopo appena un minuto e in semifinale contro la Colombia ed è titolare nella finale vinta contro il Brasile, seppur con un ginocchio fuori uso. Inevitabile che quella manifestazione diventi una vetrina, con Paco Casal a renderla ancora più luccicante. Poi arriva la chiamata dall’Italia.

Il Vicenza neopromosso di Guidolin e del presidente Pieraldo Delle Carbonare scalpita: prende Otero, Gustavo Mendez dal Penarol e lo svedese Bjorklund. Per la presentazione però c’è un piccolo problema: gli abiti che consegnano a Marcelo e a Mendez sono troppo larghi. E ancora una volta viene in aiuto mamma Ana coi suoi insegnamenti. Marcelo ricorda il lavoro di ricamo e passa tutta la notte a cucire orli, tentando di rendere quei vestiti più o meno della misura adatta. Il risultato resta comico e si guadagnano le prime prese in giro dei compagni. In campo è diverso: Otero è veloce, furbo, smaliziato e si adatta alla perfezione agli schemi di Guidolin, con Murgita accanto. Segna all’esordio in Coppa Italia col Padova e poi di nuovo al Padova in Serie A, all’Udinese, poi una doppietta al Bari e poi non si ferma più, arrivando a 11 centri in quella prima stagione, entrando nel cuore dei vicentini. Diventa a tutti gli effetti un beniamino del pubblico: quando non gioca va in curva e non disdegna un bicchierino di rosso assieme ai tifosi. Qualche bicchierino di troppo gli costa caro dopo una serata in famiglia, quando fermato dalla stradale soffia oltre i limiti e la sua patente internazionale risulta scaduta: un parlamentare leghista, il compianto Erminio Boso, arriva a chiederne l’espulsione dall’Italia, i tifosi biancorossi la risolvono alternando il coro “Dai Otero facci un pero” (facci un gol) a “Dai Otero bevi un nero” (un bicchiere di vino rosso).

La stagione successiva parte ancora meglio: alla prima di campionato segna addirittura quattro gol al Franchi alla Fiorentina di Batistuta, il ritorno a Vicenza varrà lo striscione al Menti con faccia di Otero e didascalia “Don’t cry for me Fiorentina”, visto che erano i tempi di “Evita”. L’uruguagio segna alla Juventus, che cade al Menti, di nuovo alla Fiorentina, in una stagione in cui i biancorossi si ritroveranno addirittura al primo posto a dicembre. Poi però arriva qualche infortunio, e Otero gioca poco nella seconda parte di stagione: quella che porta il Vicenza a vincere la Coppa Italia contro il Napoli. Resta la sua miglior stagione con 13 gol in campionato. Non bene nella terza stagione: Guidolin gli preferisce Luiso, e seppur partecipa alla storica Coppa delle Coppe conclusasi in semifinale segnando ai quarti al Roda, gioca poco e termina la stagione con solo tre centri. Torna al centro del progetto nella quarta e ultima stagione in biancorosso, prima con Colomba e poi con Reja: segna dieci gol che però non valgono ad evitare la retrocessione in Serie B. Lo vorrebbero la Lazio e il Liverpool, ma sceglie Siviglia, commettendo un errore: le due stagioni in Spagna non sono positive, e torna in Sud America, prima al Colon e poi al Fenix a Montevideo per chiudere la carriera. Il legame con Vicenza non è mai spezzato, è capitato di rivederlo sugli spalti a tifare: intanto ha preso il patentino da allenatore, chissà che al Menti non lo si riveda in panchina.

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