Il governo promette di rafforzare le espulsioni degli irregolari. E per farlo intende potenziare capienza e numero dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), i luoghi di detenzione degli stranieri in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione. Con più di 42 milioni di euro già previsti nell’ultima legge di Bilancio, il decreto sull’immigrazione varato dopo la tragedia di Cutro mette in campo procedure semplificate per la realizzazione di nuovi Cpr. Dai nove attualmente attivi, infatti, il governo Meloni vuole arrivare un centro in ogni regione. Non solo: anche il periodo di trattenimento potrebbe aumentare, dagli attuali 90 giorni a 120 o addirittura a 180, come previsto nei decreti sicurezza del primo governo Conte che la Lega vorrebbe ripristinare. Eppure i numeri hanno ormai smentito l’efficacia di queste strutture. “Avere più Cpr non serve a niente, se non a dare il messaggio simbolico del “li teniamo chiusi qui”, nient’altro”, assicura Mauro Palma, Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Ma nel frattempo, spiega, “in quei posti le persone cambiano e quando ritornano nelle nostre comunità, come il più delle volte accade, sono peggiorate”.

Presidente Palma, rispetto ai 500 mila irregolari stimati nel nostro Paese, i numeri dei Cpr sono minuscoli. Chi ci finisce?
Complessivamente ci finiscono 10 mila persone l’anno, al massimo. Che sono il 2% degli irregolari e il turnover è molto limitato. Ma non è mai stato rimpatriato più del 50% dei trattenuti, anche quando ci stava per periodi più lunghi. Cavalcare l’emergenza e dire “abbiamo molti migranti, acceleriamo e ampliamo i Cpr” si scontra con i dati di realtà di cui disponiamo: delle 6.000 persone rimpatriate in media ogni anno, il contributo dei centri è di 3.000 rimpatri.

Allora a che serve aumentare i Cpr?
Ci tengo a premettere una cosa: le mie riflessioni sono sempre volte al funzionamento delle istituzioni, non al loro abbattimento. E tutelare la nostra civiltà significa tutelare le persone, anche quelle che vanno rimpatriate. Ma i Cpr si sono dimostrati uno strumento inefficace: se non realizzi rapporti bilaterali ampliando la facilitazione della riaccoglienza dei Paesi d’origine, i numeri rimarranno gli stessi e questi luoghi serviranno solo a dare un messaggio simbolico quanto fuorviante, perché alle persone che non rimpatri darai un foglio di via che non verrà ottemperato e si ricomincia.

Qual è il prezzo di questa inefficacia?
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo consente la detenzione di persone contro le quali è in corso un procedimento d’espulsione, ma va ricordato che la Convenizione è del 1950, quando si contemplavano casi sporadici. Oggi quel fondamento mi pare tirato come un elastico, mentre nei Cpr manca del tutto la tutela giurisdizionale e, al contrario delle carceri, non c’è il magistrato di sorveglianza. Né ci si preoccupa di trattenere persone senza possibilità di rimpatrio o di detenerle anche sapendo che non potranno partire, come si è fatto durante la pandemia. L’assenza di tutele è evidente anche nella commistione tra chi ha commesso reati, e sta nel Cpr per una misura amministrativa aggiuntiva alla sentenza penale, e chi invece non ha commesso alcun reato.

Il mensile Altreconomia ha pubblicato i dati sugli psicofarmaci nei Cpr: l’uso della sedazione sembra fuori controllo.
Sono dati inquietanti. I comportamenti di insofferenza acuta sono il prodotto del vuoto delle giornate, che finiscono per essere riempite o con la disperazione (con episodi di autolesionismo e suicidi, ndr) o con il danneggiamento delle strutture. Sono il frutto di uno spazio dove non sei nulla, non fai nulla e nulla avviene, salvo rimuginare sul proprio destino che è un destino di fallimento, quello del rimpatrio. Investire sulla presenza di mediatori culturali e operatori sociali sarebbe un modo per ridurre la disperazione e anche gli psicofarmaci, che in centri come quelli di Milano e Roma valgono più della metà dell’intera spesa sanitaria. E come segnala l’inchiesta di Altreconomia, la maggior parte dei centri non ha voluto fornire i dati.

Chi si prende la responsabilità?
Per essere ammessa, la persona deve essere certificata dal Servizio sanitario nazionale, che rilascia il nulla osta. Ma una volta dentro il medico è quello dell’ente gestore che ha vinto il bando delle prefetture, quindi anche eventuali trattamenti sanitari già in corso vengono di fatto privatizzati. Anche la vigilanza Asl sulla salubrità degli ambienti è molto rada. Non c’è lo Stato, ma c’è un privato e bandi sempre aggiudicati al risparmio. Nelle stesse strutture si vogliono sempre più persone e sempre meno personale. E siccome le rette non sono mai state riviste, le risorse messe in campo sono sempre più limitate. Allungare i tempi di trattenimento non solo è improduttivo, ma peggiorerà la situazione. Un comportamento che purtroppo riguarda tanta parte dell’Unione europea, dove la paura dell’invasione determina scelte irrazionali.

C’è un altro modo?
Manca una percezione sociale del problema, anche nell’opinione pubblica più informata. Tutto diventa di nicchia e ideologico. Serve più calma e si può innanzitutto ripartire dai dati, che ormai abbiamo. Facciamo una conferenza nazionale sul problema degli stranieri che devono tornare nel Paese d’origine perché non hanno diritto a rimanere. Va data una valutazione sul piano dell’investimento di spesa e di rapporto con le comunità locali, che è un processo lento che non si esaurisce nei messaggi elettorali. Perché è nelle nostre comunità che tornano le tante persone che transitano dai Cpr senza essere rimpatriate, e ci tornano in una condizione peggiore.

Cosa propone?
Prima ancora di guardare dentro ai Cpr, ci vuole maggiore attenzione all’inserimento lavorativo e sociale: ho visto nei Cpr persone che parlano perfettamente l’italiano, da anni nel nostro Paese. Quanto ai centri, luoghi di attesa come questi devono avere un investimento nel tempo da spendere lì e ci vogliono tutele giurisdizionali, anche evitando la commistione tra chi ha commesso reati e chi è detenuto per la pura irregolarità amministrativa. Secondo: impegno e trasparenza sugli accordi con i paesi di provenienza. Infine, lo ribadisco, mettiamo insieme le migliori intelligenze per affrontare la questione in modo strutturale. Le azioni di una democrazia devono avere la prospettiva più lunga possibile, non quella di chi mette una toppa di volta in volta.

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