L’8 aprile del 1971 a Londra si riunì il primo Congresso internazionale del popolo Roma – parola da considerarsi corretta per identificare tutti i gruppi correlati, indipendentemente dal loro paese di origine – e si costituì la Romanì Union, la prima associazione mondiale dei Roma, riconosciuta dall’Onu nel 1979. Il popolo Roma si riferisce a cinque gruppi principali, che sono: Sinti, Roma, Kale, Manouches e Romanichals. All’interno di questi gruppi esistono diversi sottogruppi e, tutti, si riconoscono in un’unica lingua, il Romanès. Oggi è, dunque, la Giornata internazionale dei Roma – è questa la terminologia corretta e non quella istituzionale “Giornata dei rom, sinti e camminanti”. Si tratta di una ricorrenza annuale che cerca di celebrare la cultura Romanì e sensibilizzare l’opinione pubblica sulla discriminazione che questo popolo vive da secoli e in molteplici forme: dalla marginalizzazione sociale ed economica, alla segregazione spaziale, al dilagare di una molteplicità di stigma e luoghi comuni.

Anche recentemente è esplosa una “bomba mediatica” su alcuni furti nelle metro di Roma e Milano. Questo atteggiamento non parla delle condizioni economiche e sociali in cui una parte (minoritaria) del popolo Romanì vive. Tali condizioni non sono caratteristiche etniche, ma frutto di una lunga storia di marginalizzazione. Inoltre, la mediatizzazione compulsiva e stigmatizzante di certi episodi rischia di nutrire ulteriormente uno stereotipo che non risponde alla realtà: sorprenderà qualche lettore il fatto che la maggioranza del popolo Romanì in Italia è perfettamente integrato nel tessuto sociale.

Ilfattoquotidiano.it con Ivana Nikòlic, artista e attivista per i diritti del popolo Romaní, influencer e autrice del podcast +Rom-Rum (disponibile su Spotify).

Ivana Nikòlic, la discriminazione del popolo Romanì ha lontane radici storiche. Quali passaggi ritiene più significativi?
Partirei dalle origini: gli storici hanno scoperto che la comunità Romanì proviene dall’India settentrionale; si suppone che la comunità sia giunta in Europa all’incirca a partire dal nono secolo. Fu a quel punto che iniziò una diaspora – e non un nomadismo volontario – che costrinse frequentemente i Romanì a situazioni di scarsa accoglienza, ostilità e marginalizzazione economica e sociale. Anche oggi, nonostante il pregiudizio diffuso nel senso comune, la maggior parte del popolo Romanì non è nomade: solo alcune parti della comunità hanno scelto la condizione di nomadismo e vivono per lo più in Irlanda, in Inghilterra, in India e in Africa. Dopo l’inizio della diaspora i Romanì vennero frequentemente costretti alla schiavitù, una pratica che continuò fino al diciannovesimo secolo in Romania e altrove. Le forme di discriminazione furono d’altro canto molteplici e anche più sottili. Ad esempio, durante il suo regno la regina Caterina d’Aragona promosse delle politiche che implicarono il divieto dell’uso della lingua Romanès: chi avesse disobbedito si sarebbe ritrovato con la lingua tagliata. Questo tipo di iniziative hanno contribuito ampiamente all’ostracizzazione di un’identità culturale, ampiamente stigmatizzata e invisibilizzata.

Fenomeni che sembrano resistere ancora oggi.
Ancora oggi il riconoscimento della lingua Romanès non riguarda tutti i Paesi. Nel 2015, il Consiglio d’Europa riunitosi a Strasburgo invitò tutti gli Stati membri a intensificare gli sforzi per riconoscere, proteggere e promuovere la lingua del popolo Romanì in Europa, ma solo 16 Stati hanno compiuto questo passaggio e l’Italia manca all’appello. Andando avanti nel tempo poi, e in forme storicamente più note, arriviamo alla seconda guerra mondiale e ai decenni immediatamente precedenti, quando a partire dagli anni Trenta, sotto la dittatura nazista, centinaia di migliaia di rom vennero uccisi in quello che la mia cultura ricorda come Samudaripen o Porrajmos. In relazione a ciò, molte famiglie Romanì nella Germania dell’epoca cambiarono il proprio cognome, cercando di occultare la propria identità per sopravvivenza e contribuendo indirettamente a quel processo di invisibilizzazione che tutt’oggi influenza la difficoltà che si ha nel rivendicare con orgoglio la propria appartenenza etnica e culturale. Inoltre, tra anni Settanta e Novanta, in Repubblica Ceca, Svezia e Slovacchia migliaia di Romanì vennero forzatamente sterilizzate.

Quale crede che siano, in Italia, gli ambiti in cui emerge di più la marginalizzazione della popolazione Romanì? Su cosa consiglia di lavorare per decostruirli?
La generale stigmatizzazione del popolo Romanì ha a lungo comportato e ancora comporta diverse difficoltà in termini di accessibilità delle risorse e fruizione di servizi. I cinque ambiti più critici sono da un lato casa, lavoro, sanità e scuola; dall’altro, e in senso più profondamente culturale, la negazione stessa della propria identità. Occorrerebbe quindi, soprattutto per contrastare quest’ultimo punto e permettere un maggiore riconoscimento della comunità, un lavoro culturale, sociale e politico ampio, che possa gradualmente portare al mutamento del contesto in cui il popolo Romanì continua a trovarsi discriminato. In Italia un paradosso è quello che riguarda i campi, dove vive una minoranza del popolo Romanì, mentre la maggior parte è sostanzialmente inserita nel tessuto sociale nazionale. Anzitutto la narrazione mediatica delle dinamiche relative ai campi ha completamente portato ad appiattire il popolo Romanì sulla realtà dei campi, al di là di ogni aderenza con i dati reali. Inoltre, in Italia negli anni Settanta è stata scritta una legge per costruire dei “campi attrezzati” – ai più noti come “campi nomadi” – che oggi vengono, invece, prima riempiti, poi sgomberati lasciando molte persone per strada, senza alternative e colpevolizzandole all’interno di un cerchio di emarginazione e disagio sociale senza fine.

Lei lavora molto sull’importanza del linguaggio e di come questo influenzi a priori un’idea distorta del popolo Romanì.
In generale il lavoro da artista e educatrice mi ha portato a focalizzarmi molto sugli aspetti del linguaggio e della comunicazione, concentrandomi soprattutto sugli strumenti dell’arte sociale e coinvolgendo diverse comunità etniche. Il punto per me sta nel dare parole a chi vive determinate discriminazioni, al fine di decostruirle insieme e per ricostruire il proprio orgoglio di appartenenza, oltre le stigmatizzazioni subite. Con la pandemia questo lavoro, unito a quello dell’attivismo, mi ha portato a creare il formato del podcast e oggi sono molto felice del riscontro che sta avendo sia in senso divulgativo, sia per la comunità. Sono infatti molte le persone che mi scrivono per condividere con me le loro esperienze e partecipare a un progetto che, prima che individuale, vuole essere collettivo.

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