Il rispetto del diritto a un giusto processo anche per coloro che hanno commesso crimini efferati. È con queste poche parole che può essere sintetizzata la motivazione dei giudici della Corte di Cassazione che lo scorso 15 luglio hanno dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Roma sull’improcedibilità nei confronti dei quattro agenti della National Security egiziana accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni. A sette anni dalla morte del ricercatore di Fiumicello, arrivano le spiegazioni dei togati sull’ultima delusione per la famiglia e tutta la società civile che da anni porta avanti la scorta mediatica per continuare a chiedere verità e giustizia per il ragazzo italiano.

“Il perseguimento delle condotte criminose, anche se efferate e ignominiose quali quelle oggetto di imputazione, devono passare, in uno Stato di diritto, attraverso il rispetto delle regole del giusto processo regolato dalla legge, che si svolga nel pieno ed effettivo contraddittorio tra le parti – si legge nelle motivazioni dei giudici della prima sezione penale di Cassazione – Quanto precede consente dunque di escludere che nel caso di specie possa ipotizzarsi, e comunque ritenersi sussistente, la dedotta abnormità dell’ordinanza impugnata e dei provvedimenti che ne costituiscono il presupposto, che risultano pertanto insuscettibili di impugnazione”.

In particolare, i supremi giudici contestano la lettura data dai pm capitolini e alla base del ricorso presentato secondo la quale l’enorme risalto mediatico della vicenda, sia in Italia che in Egitto, renda altamente improbabile l’eventualità che i quattro agenti egiziani non siano venuti a conoscenza delle indagini a loro carico. Un’eventualità che, se fosse stata confermata dalla decisione della Cassazione, avrebbe reso non più necessaria l’iscrizione di domicilio resa impossibile dall’irreperibilità dei soggetti coinvolti e dalla mancata collaborazione del governo del Cairo nel recapitarla agli uomini della sicurezza nazionale. Il tutto a pochi giorni dalle dichiarazioni controverse pronunciate dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani: “Abbiamo affrontato le questioni Regeni e Zaki – ha detto dopo l’incontro col presidente Abdel Fattah al-Sisi – Ho chiesto collaborazione da parte egiziana, mi hanno assicurato che tutti gli ostacoli verranno rimossi, senza alcuna reticenza. È stato il presidente Al-Sisi a dirmi per primo che toglierà tutti gli ostacoli per una collaborazione proficua tra i nostri due Paesi”. Parole che, dopo le proteste della famiglia e le critiche pubbliche, il capo della Farnesina ha dovuto ammorbidire, precisando che Roma continuerà a pretendere collaborazione fattiva dal Paese mediorientale.

Per come stanno le cose al momento, però, procedere per le vie giudiziarie appare impossibile, nel parere dei giudici, se si vuol rispettare lo Stato di diritto: “Immune da vizi logici o giuridici deve ritenersi la valutazione, giustificata in modo assai ampio e articolato dalla Corte di Assise, secondo la quale le qualifiche soggettive degli imputati all’interno delle forze di polizia o degli apparati di sicurezza egiziani, la partecipazione di alcuni di essi al team egiziano incaricato di collaborare con gli inquirenti italiani nel caso Regeni, il fatto che alcuni di loro siano stati in quella sede sentiti quali persone informate dei fatti circa le indagini svolte in Egitto, e la rilevanza mediatica, anche internazionale, del processo italiano non sono concludenti al fine di ritenere raggiunta la certezza della conoscenza da parte degli imputati del processo a loro carico”. E ritengono inoltre “congetturali e basate su indimostrate presunzioni le opposte valutazioni del Pubblico ministero circa una necessaria e generalizzata osmosi informativa all’interno dei servizi di sicurezza egiziani, ovvero in ordine alla necessaria conoscenza che gli stessi imputati avrebbero in ogni caso tratto dai media internazionali, in particolare da quelli in lingua inglese o araba, circa le precise cadenze del processo instaurato in Italia nei loro confronti. Specularmente – concludono i giudici della Cassazione – non può in alcun modo ritenersi che la certa conoscenza delle accuse e della vocatio in iudicium possa annettersi a quegli stessi dati fattuali, che l’ordinanza del 25 maggio 2021 del Gup di Roma aveva posto a base della dichiarata assenza degli imputati ai fini del loro rinvio a giudizio”.

È proprio per questo, specificano i togati, che l’azione da portare avanti in questo momento per assicurare un giusto processo è di tipo politico e non giudiziario. Azione che si deve intestare il governo di Giorgia Meloni, facendo pressioni sull’Egitto e pretendendo collaborazione sul regolare svolgimento del processo. Collaborazione che, però, dal Cairo hanno sempre negato ribadendo l’innocenza dei quattro indagati. “Il superamento della rappresentata situazione, impeditiva della partecipazione degli imputati al processo, per il cui svolgimento sussiste la giurisdizione italiana, tenuta ad applicare senza strappi il tessuto normativo, garantista e rispettoso dei diritti di tutte le parti processuali secondo le coordinate interpretative consegnate, in tema di giudizio in assenza, dalle Sezioni Unite, appartiene alle competenti Autorità di governo”, sottolineano infatti giudici.

Ripartendo da questo punto arriva, di nuovo, l’appello dell’ex presidente della Camera, Roberto Fico, da sempre tra i politici più vicini alle istanze della famiglia Regeni, all’esecutivo italiano: “Le motivazioni della Cassazione sullo stop al processo ai torturatori e gli assassini di Giulio Regeni sono uno sprone al governo. Adesso il ministro degli Esteri Antonio Tajani, dopo i maldestri annunci fatti al Cairo, passi dalle parole ai fatti. Il governo pretenda gli indirizzi degli indagati per dar seguito al processo”.

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