Il procuratore di Palmi Emanuele Crescenti lo ha definito un “un vero e proprio atto di guerra” quello che si è consumato il 2 maggio 2019 sulla strada provinciale 27 che dal Comune di Melicuccà porta a San Procopio, in provincia di Reggio Calabria. Quel giorno tra le campagne della Piana di Gioia Tauro, una banda di rapinatori assaltò a colpi di kalashnikov un furgone portavalori della Sicurtransport. Sbarrando la strada con un mezzo pesante rubato e con dei tronchi d’albero, tagliati e riversi sull’asfalto, dopo aver bloccato il blindato e averlo tamponato con una Fiat Uno rubata, armi in pugno il commando si fece consegnare 627.500 euro e la pistola di una delle due guardie giurate a bordo del furgone. Tre di questi rapinatori, Francesco Trefiletti, Giuseppe Oliveri e Carmine Alvaro, sono stati arrestati stamattina dai carabinieri del comando provinciale.

Secondo la Procura di Palmi hanno agito “con almeno altre 4 persone rimaste non identificate”. Il blitz dell’operazione “Terramala” è scattato all’alba quando è stata eseguita l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Barbara Borelli su richiesta della Procura di Palmi che ha contestato ai sette componenti della banda diversi reati in materia di armi e ordigni esplosivi, lesioni personali aggravate, danneggiamento, furto, ricettazione e rapina. In carcere è finito anche Domenico Alvaro, mentre sono stati disposti i domiciliari per Mostafà Giuseppe El Gharaff, Domenico Laurito e Benito Tavella. Grazie agli accertamenti patrimoniali sui soggetti che gravitavano negli ambienti della mala locale, i carabinieri sono riusciti a scoprire che nei giorni successivi alla rapina, alcuni degli indagati avevano acquistato auto sproporzionate al loro reddito.

Le intercettazioni hanno fatto il resto, consentendo alla Procura di Palmi di chiudere il cerchio sui componenti della banda, alcuni dei quali coinvolti in una tentata rapina avvenuta a Reggio Calabria e ritenuti soggetti dotati di particolare abilità criminale, capaci di condotte particolarmente violente e spregiudicati nel conseguire i loro intenti.

L’assalto al portavalori è fruttato circa 90mila euro a ogni componente del commando che sarebbe stato guidata da Francesco Trefiletti, ritenuto il principale indagato dell’inchiesta e che, tra l’altro, per un periodo si era reso irreperibile. Nel corso delle indagini, i carabinieri hanno ritrovato la pistola che era stata rubata alla guardia giurata vittima dell’assalto sulla strada provinciale 27. Ma sono stati sequestrati anche diverse sostanze stupefacenti, armi e munizioni cui un fucile calibro 12, una cartucciera da caccia, svariate munizioni di diverso calibro, circa due chili di marijuana, autovetture e macchinari agricoli rubati.

Durante una perquisizione a casa di Trefiletti quando questo era detenuto, inoltre, i carabinieri hanno trovato pizzini riportanti riti di affiliazione alla ‘ndrangheta. Si tratta di sette fogli di piccole dimensioni, a righe, nascosti all’interno di una busta di plastica assieme a numerose lettere manoscritte inviate da Trefiletti alla moglie durante la detenzione nel carcere di Paola.

Elogiando il lavoro “eccezionale” dei carabinieri, il procuratore di Palmi Emanuele Crescenti ha definito la rapina alla Sicurtransport “un vero e proprio atto di guerra perché si è sparato con i kalashnikov e solo la fortuna ha voluto che non ci sia stato spargimento di sangue. Non è escluso che ci sia stato qualcuno che ha dato delle dritte, però siamo a livello di possibilità”. Sul contesto mafioso, il magistrato ha aggiunto che “non ci elementi in merito all’intervento della criminalità organizzata, altrimenti avremmo trasmesso gli atti alla Dda di Reggio Calabria. Certo non possiamo escluderlo e non ci sorprenderebbe”.

Capitolo a parte è quello delle intercettazioni che, secondo il capo della Procura di Palmi sono state determinanti in questa inchiesta e “hanno consentito di risalire e verificare quelli che erano i punti nodali dell’assalto al portavalori che è stato di una gravità inaudita”. A margine della conferenza stampa, il procuratore Crescenti si è soffermato sul rischio di una “stretta” sulle intercettazioni e sui danni che potrebbe provocare alle indagini. Il magistrato non le ha mandate a dire: “In un’epoca informatica in cui tutti quanti siamo attaccati e collegati col mondo in videochiamata e in contatto mediatico, cercare di bloccare quello che è il principale strumento di indagine, le intercettazioni, significa fare un passo indietro di anni”. Senza intercettazioni, ha detto, “si tratterebbe di tornare all’epoca delle carrozze. Qui dobbiamo essere chiari e stiamo parlando al di fuori di quello che è l’oggetto delle indagini di oggi. Le investigazioni di polizia giudiziaria che lavorano su reati e, quindi, su condotte criminali, sono di per sé una violazione della privacy”.

Crescenti fa un esempio chiaro per dimostrare che le intercettazioni sono a garanzia anche dell’indagato: “Il maresciallo che va dietro e ascolta quello che due indagati si dicono al bar viola la privacy. Solo che il maresciallo che va dietro e che ascolta può sbagliare o può non sentire mentre attraverso le captazioni informatiche noi riusciamo ad avere una contezza. E questo spesso è fonte probatoria a favore dell’accusa ma moltissime volte è fonte di riscontro negativo. Cioè ci consente di dire che abbiamo sbagliato e che quella persona non c’entrava niente. Il maresciallo che ascolta e che torna indietro all’epoca delle carrozze potrebbe sbagliare e andare contro la persona che viene indiziata e che invece dovrebbe essere considerata innocente”. Sul tema il procuratore Emanuele Crescenti è convinto: “Si parla delle intercettazioni per gettare via il bambino con tutta l’acqua sporca quando bisognerebbe concentrarsi sull’utilizzazione di quelle che non sono utili alle indagini. Quello è il problema grosso”.

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